venerdì 19 novembre 2010

Haiku

di Rocco Bonelli



Piangevo da solo in quella stanza della "locanda del cigno che ride", finchè il vecchio che alloggiava al piano di sopra, un pedante con le unghie listate di nero, bussò alla porta chiedendo quale fosse il problema.
Troppo stanco per cercare riparo dietro la mia solita arguzia insolente, indicai la mascella gonfia ed il vecchio insistette per accompagnarmi da un dentista che sapeva essere alquanto affidabile e serio.
Sarebbe ripassato il pomeriggio seguente dopo pranzo ed insistette che se non avessi avuto soldi a sufficienza, avrebbe regolato lui stesso il conto con il dentista, suo amico di vecchia data e persona comprensiva.
Non potevo negare il conforto che provavo all'idea che il giorno dopo a quella stessa ora non avrei più sofferto, ma non potei fare a meno di coricarmi sul letto e dare dello stupido al vecchio.
Infatti i lamenti che avevano portato il mio vicino a bussare alla mia porta avevano poco a che fare con il mal di denti.
Piangevo per una ragazza che quel giorno avevo visto bighellonare accanto alla fontana davanti alla quale passavo ogni giorno.
Era vestita di tutto punto, le sue scarpe ed il suo umore si sollevavano.
Incredibile come gli spruzzi della fontana premevano sempre di più le linee del sole nei suoi capelli finchè la luce non vi si tratteneva oltre lo spietato tramonto!
Come potrò più sognare alla luce del giorno, pensai, sapendo che lei bazzica le strade di questi luoghi e ne respira l'aria?!
Il buio era già completo quando lei passò davanti alla panchina sulla quale ero seduto ed io avevo estratto di gran fretta un taccuino lercio dalle tasche ed avevo finito di leggere le sue pagine bianche.
Lei aveva proseguito e le ultime sfumature di luce erano scivolate fra i suoi capelli sparsi sulle spalle.
Le mie dita avevano tremato di un desiderio insostenibile.
Di toccarla.
Era questa la fonte di sofferenza che il vecchio aveva udito quella sera dal pavimento sotto di lui.
Come aveva promesso, quel pomeriggio il vecchio busso alla mia porta.
Insieme scendemmo nei cerchi di fresca luce solare sui marciapiedi.
Questo dentista, spiegò il vecchio, ha recentemente sperimentato uno strano gas chiamato ossido di azoto che si dice sia molto efficace nell'eliminare il dolore, per tanto non vi augustiate.
Annuii sbadatamente, per come stavano le cose non vedevo l'ora di affrontare il calvario che implicasse la purificazione da ogni forma di dolore grazie a un'altra sofferenza perfino più intensa.
Venni fatto accomodare su una poltrona non dissimile da quella di un barbiere, o almeno così mi era sembrato visto che dal barbiere non ci andavo più da qualche tempo.
Il dentista che aveva le guance rosee, gli occhi neri e piccini ed una bocca sensuale, con gesti alquanto maldestri, cominciò ad applicare una una mascherina nera a forma di coppa sulla mia bocca e sul mio naso.
Un lungo tubo di gomma collegava la mascherina ad una bombola sistemata dietro la poltrona.
Il dentista ruotò una manopola sulla bocchetta della bombola mi diede un buffetto sulla guancia e mi disse di rilassarmi.
Non ho idea di quello che sto cercando di realizzare, dissi al dentista, e forse neppure lei ce l'ha.
Continuiamo ad ammazzare il tempo mentre ci scappa il tempo.
Il dentista ridacchiò ed uscì dalla porta.
Il vecchio gli aveva detto che io sostenevo di scrivere poesie e ora avrebbe lasciato passare un po di tempo prima di mettersi a cavare i denti, lasciandomi sognare.
E così io sognai sogni nitrosi.
Sognai di topi sigillati in botti di acqua azzurra. Di fulmini a forma di treni che passavano tra i rami di un albero. Degli elementi dell'orgasmo in macchina: Il passaggio maldestro sul sedile del passeggero per raggiungere la portiera vicina, la pressione delle ginocchia contro la fiancata interna della portiera, la strisciata elissoidale nella patina di polvere quando il fianco di lei striscia contro il sedile, le sue caviglie delicate nella cenere soffice del posacenere, il sudore che trasforma la scollatura della sua camicietta in un baldacchino umido, l'estinzione di un intero paesaggio dentro un canale irrigato, la congiunzione fra le sue cosce e gli strumenti di guida, i movimenti delle sue dita sulle punte cromate degli strumenti del cruscotto.
Dopo ciò ebbi una visione, c'erano parole multicolori sulle fronti delle donne e l'odore di gomma bruciata si abbaricava con dita spinose alla parte superiore del mio cranio.
Le parole che leggevo erano una canzone basata su quella forma di poesia in miniatura chiamata Haiku.
L'haiku è una breve composizione di origine giapponese prevalentemente basata sulla forma a 5 - 7 - 5: tre righe, per un totale di 17 sillabe.
Queste regole sono molto elastiche, ciò che conta è cogliere qualche aspetto di ciò che ci circonda, in modo minimalistico.
Nel 2005 io ed altre tre persone facemmo un patto: mandarsi a vicenda un haiku al giorno registrato in segreterie telefoniche.
Delle decine che scrissi mi sovvengono solo questi due:

Colmi di rune
occhi filigranati
si accendono
 
 
Alza la mano
abbraccia tigre
e torna a montagna

Mi svegliai e disposi i sogni di quel viaggio sul pavimento come carte da gioco.
Tastando nelle tasche della giacca drappeggiata sul braciolo della poltrona del dentista alla ricerca delle mie Camel, sentìì il crocefisso che ormai portavo da mesi al collo, indossato la prima volta per proteggermi da colei che si dice fredda, quando l'avevo lasciata in lacrime sulle scale dopo la mia ultima visita.
Facevo tesoro di quel crocefisso, ciò malgrado lo tenevo nascosto.
Volevo che le mie mani e il mio collo fossero nudi, poichè la mia pelle era già abbastanza decorata dalle linee grezze di sangue che l'attraversavano, formando vocali d'argento.



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