giovedì 10 ottobre 2013

Stanza 101 (6 episodi)

di Daniela Pasiphae






30 Settembre 2013

IV° GIORNO



Nella stanza 101 i primi tre giorni non sapevo di esserci dentro

Nella mia stanza 101 non ci sono topi.

Ci sono stata e ci vado spesso.


La mia stanza 101 è vuota.

E’ una cella di isolamento dove so che ci sono entrata da sola.

Una cella di isolamento da dove so che posso uscire quando voglio.

Una cella di isolamento da cui provo a uscire, ma poi non esco.

Una cella di isolamento da cui non voglio uscire.

Una cella di isolamento che, per quanto vuota, so com’è fatta.


Ve la descrivo.



Nella stanza 101 non c’è nulla.

Nella stanza 101 ci sono cose che non voglio.


Nessuna sicurezza, nessun conforto.

Nessuna carezza, nessun gesto d’affetto.

Nessun pericolo. Non c’è morte a meno che non la voglia io.

Non c’è nessuno che mi fa del male a parte me stessa.

Nella stanza 101 è pieno di gente,

ma io non la vedo.


Nella stanza 101 faccio quello che voglio.

Non faccio quello che le persone vogliono che io faccia.

Finalmente, nella stanza 101, soffro.


Sì, soffro tantissimo. Tanto.

Nella stanza 101 decido di soffrire e soffro.

Nella stanza 101 nessuno mi può dire che non posso soffrire.


L’ho deciso io. Non l’hanno deciso gli altri.


Nella stanza 101 faccio quella cosa che non ho mai fatto.

Fuori dalla stanza 101 ero un’altra cosa,

una persona che piaceva a quasi tutti.

Fuori dalla stanza 101 facevo quello che non volevo.


Facevo la brava persona. Facevo quella che era felice.

Ma nella stanza 101 faccio quello che voglio.



Nella stanza 101 mi vogliono tutti bene,

ma nella stanza 101, non ditelo a nessuno,

nella stanza 101 io posso odiare.



Nella mia stanza 101

lasciatemi soffrire.





01 Ottobre 2013
V° GIORNO



Nella stanza 101 più fai luce e più è buio.


Nella stanza 101 oggi abbiamo delle cose da dire,


ma non le vogliamo dire.


Nella stanza 101 ci moltiplichiamo,


parliamo in terza persona.


Nella stanza 101 non vogliamo colpe.






Nella stanza 101 non si mangia da giorni,


così si soffre meglio e sembra più reale.






Nella stanza 101 è difficile confessare le proprie colpe,


è difficile farlo in prima persona. Ma ci provo.






Nella stanza 101 mi accorgo delle cose malsane.


Nella stanza 101, prima di uscirne, devo accorgermi


che ci sono entrata io e che ci voglio rimanere.






Vi spiego.




Nella stanza 101 desidero che le persone che dico di amare


soffrano. Non mi rincuora la loro sofferenza,


c’è di più, sono molto più furba di così.


Nella stanza 101 la gente che soffre poi, forse, viene da me.


Qui dentro, se sfrutto la dipendenza e il bisogno altrui,


poi desidero che questa loro sofferenza permanga.


Nella stanza 101 possono entrare solo persone dipendenti da me


così non se ne possono andare.


Nella stanza 101, se se ne vanno, soffro le mie paure.


Abbandono, inadeguatezza, convinzione ferma di:


non meritare amore


essere sbagliata


essere indegna.






Nella stanza 101 vedo un papà che saluta figlia e moglie,


le lascia scorrere verso la scuola e il lavoro,


fa ciao con la manina, sorride felice,


rientra in casa e chiama l’amante.






Nella stanza 101 vedo quello che sono,


una persona senza niente al mondo


che cerca redenzione uccidendo intorno.






Nella stanza 101, se guardo proprio bene,


rischio che poi io ne esca.


E non mi va.






Nella stanza 101 non mi va proprio di dirvelo,



perché in realtà non ci credo nemmeno,



che uso le persone e quindi che non so amare,



che non so ricevere,



ma solo comprare e vendere.




Nella stanza 101 ve lo posso dire:



sto qui dentro perché devo dimostrare a tutti che esiste l’amore vero,



quello del principe azzurro, quello della gente che muore per amore.



Sto qui dentro perché non mi va proprio giù che l’amore sia un’altra cosa.



Nella stanza 101, se ti amo, io mi annullo e ti do tutto e tu,



nella stanza 101, devi fare lo stesso. Devi essere dipendente.



Nella stanza 101, se vuoi stare qui dentro con me,



se vuoi fare l’amore con me, devi darmi il peso dei tuoi problemi.



In cambio di questo, e di sesso e abbracci, io ti do i miei problemi



e mi faccio carico dei tuoi, ma solo perché non mi abbandoni.



Nella stanza 101 c’è condivisione



nell’atto di rovesciare problemi nel vuoto dell’altro.





Nella stanza 101, se per caso stai un po’ bene e mi abbandoni,



io desidero che tu stia male e che torni da me.





Sono dentro questa stanza, qui dentro funziona così.





Ah ma con chi sto parlando? Te ne sei andato,



non giochi più? Sei sicuro che non vuoi?




Sei uscito o hai solo cambiato stanza?










02 Ottobre 2013

VI° GIORNO







Oggi, nella stanza 101, si è incazzati.


Tanto.


Vi piace essere incazzati? No, vero?


Se siete incazzati, fuori dalla stanza 101, le persone non vi vogliono bene.


Se siete cattivi, se mostrate quello che siete,


avete paura che nessuno vi voglia. Non è così?






Allora vi insegno come fare, se volete.


Nella stanza 101, se volete potete.






Non potete perdonare se prima non ammettete di essere arrabbiati.


Non potete arrabbiarvi se non accettate di essere delle brutte persone.


Non potete essere delle brutte persone se non accettate di restare soli con voi stessi.





Io sono una brutta persona.


Mentre lo dico non ci credo perché ho un ego da difendere


però controllo, guardo i fatti, cosa penso e faccio ogni giorno.


Faccio del male intorno e in primis a me.






Giudico. Me e tutti quanti, quindi, facciamo questo gioco.


Facciamolo fino in fondo.






La vita è ingiusta.


Io sono una brava persona


gli altri sono cattivi.


Tutti sono opportunisti


io no.


Tutti non mi amano


io sì.


Quella cosa è sbagliata


io l’avrei fatta meglio.






Dalla stanza 101 cerco di uscire perché non mi piace qui.


Ma cerco una stanza uguale alla 101.


Cambio l’arredo, ma cerco sempre una stanza.


L’arredo lo immagino io, la stanza 101 è vuota!









06 Ottobre 2013

X° GIORNO






Nella stanza 101 oggi è entrato Dio, mi ha teso la mano


io l’ho guardata e, nella stanza 101, ho rinunciato.






Nella stanza 101 ho scelto di soffrire ancora.


Sebbene la strada per la gioia sia più semplice di quanto io creda


(almeno così dicono) ho scelto di camminare ancora nella 101.






Nella stanza 101 l’Angelo di Dio mi ha indicato la Via.


Nella stanza 101 ho guardato l’Angelo di Dio e l’ho giudicato.


Nella stanza 101 l’Angelo di Dio è un mostro approfittatore,


non è vestito di bianco, non è candido e puro.


Nella stanza 101 gli angeli di Dio sono esseri umani,


persone come me che compiono atti orribili da giudicare.


Nella stanza 101 l’Angelo di Dio mi chiede di fare cose che non voglio,


l’Angelo di Dio dice che vinceremo le paure, che


combatteremo il Drago. Nella stanza 101 c’è un Drago.







Il Drago della stanza 101 è sempre stato mio amico.


Io sto nella stanza 101 perché c’è lui da accudire.






Nella stanza 101 c’è un gran da fare.


C’è da costruire cinta murarie e torrette. Non ci sono eserciti,


ma tanti, tantissimi, livelli di cinta da costruire,


da riparare, da non lasciar sgretolare.


Fuori ci sono tante cose. Fuori dalle mura, fuori dalla stanza 101,


c’è qualcosa che non conosco. Ho Paura!


Fuori dalla stanza 101 forse c’è qualcosa che può farmi del male.


Forse potrei morire. Allora resto nella stanza 101.


Qui, nella mia stanza 101, sono sola.


Così sola che a volte vorrei smettere di esistere.


Ma non posso far entrare nessuno perché forse,


se entra qualcuno nella stanza 101, poi forse,


nella stanza 101, mi faranno del male.


Nella stanza 101 è meglio crepare di solitudine


piuttosto che rischiare che qualcuno entri.


Qualcuno di cui ho paura, anche se non lo conosco.


Qualcuno che, nella stanza 101, forse può uccidermi.


Nella stanza 101 abbiamo un labirinto di mura e a loro difesa


un invisibile esercito di orgoglio e vanità.


Un invisibile esercito che mi protegge da ogni razzia.






Non toccatemi, mi date fastidio.


Non siate felici, cercherò la vostra tristezza.






Non amatemi, io vi odio.






Nella stanza 101, nel momento in cui vi entrate,


nella stanza 101 siete ladri, bugiardi, approfittatori,


nella stanza 101 da dieci giorni non entrano nemmeno gli anatroccoli.


Nella stanza 101 prima entravano i cuccioli indifesi.


Da dieci giorni, nella stanza 101,


dopo che un cucciolo mi ha staccato il cuore a morsi,


non entra più nessuno, abbiamo triplicato le mura.






Nella stanza 101, se vuoi avvicinarti, non puoi.


Nella stanza 101 non potevi già prima,


se vuoi una parte di me, nella stanza 101,


avrai solo quella fintissima recita.






Nella stanza 101 mandatemi una persona che provi ad amarmi.


Fuori dalla stanza 101 ritroverete un cadavere dissanguato.










07 Ottobre 2013

XI° GIORNO



Cosa succede quando ti accorgi che il tuo sistema di valutazione che applichi sulle persone e sul mondo è fallimentare?






Nella stanza 101 puoi non pensarci e continuare a dare la colpa fuori.


Puoi guardare gli altri e dire che sono brutti, che hanno sbagliato,


nella stanza 101 puoi dire che tutto dipende da te se hai letto qualche libro


o se qualche guru ti ha detto che Tu crei la tua realtà


Ma nella stanza 101 io continuo a dare la colpa a te


dicendo che è colpa mia e che potevo fare diversamente.






Hai capito? Qui, nella stanza 101, si dicono cose,


cose che sono una l’opposto dell’altra


e si crea sofferenza nel tentativo di giustificarle entrambe!







Nella stanza 101: fuori tutti!


Non mi fido che di me stessa!


No aspetta, cosa dico, non mi fido neanche di me!


Allora, aspettate un attimo, rientrate, mi occorre qualcosa,


nella stanza 101 mi servono verità, punti di riferimento,


nella stanza 101 creo distrazioni, aiutatemi!






Nella stanza 101 ci ero entrata pensando di guardarmi in faccia,


ma non ci sono specchi che riflettano qualcosa che mi piace.


Nella stanza 101 si riflettono solo menzogne, bugie, mostri apocalittici.


Nella stanza 101, fatemi guardare bene, così posso valutare.






Nella stanza 101


posso applicare il mio sistema di conoscenza del bene e del male.


Allora diciamolo! Nella stanza 101 esiste il bene e il male.


Nella stanza 101 ci sono cose belle e brutte e chi traccia la linea di confine?






E’ TUTTA COLPA VOSTRA!


Nella stanza 101 qualcuno sta di qua della linea del male,


qualcuno sta di là. Tu ieri eri qui con me e oggi sei il nemico.


O forse lo sei sempre stato.






La principale attività, qui dentro, è quella di stabilire cosa sia giusto e cosa no.


O giocate a questo gioco o siete delle persone cattive.


Anzi, nella stanza 101, se entri per dirmi che non esiste il bene e il male,


se entri qui dentro per dirmi che è solo mente, che è solo pensiero,


se lo fai, qui, nella MIA stanza 101, io cerco di farti giudicare.


Vieni ti insegno, è facile. Tutti ti fanno del male, prova. Vedrai, vedrai anche tu.


Nella stanza 101, se hai voglia di guardare, non puoi che vedere il male.


Nella stanza 101 vedi il male e non lo vuoi. Vedi il bene e non lo vuoi.






Si passano interminabili anni nel tentativo di far combaciare il pensiero.


Fare questa attività è utile in quanto si riesce a non guardare sé stessi.


Quando, nella stanza 101, impiego tutto il tempo per giudicare,


per pensare a cosa è bene e cosa è male,


nella stanza 101 posso concedermi anche il lusso di non guardare.






I mostri infernali, decapitati uno dopo l’altro,


addobbano le pareti della stanza 101.


Ogni testa è caduta per permettere alla mia di sopravvivere.


Ogni cadavere dissanguato si è donato in nome della finzione.






Nella stanza 101 è pieno di trappole.


Ognuna di queste ha uno scopo preciso.


Qui dentro, quanto più sono cattivi gli altri,


tanto più sono buona io.


Nella stanza 101 se muori tu, vivo io.







09 Ottobre 2013

XIII° GIORNO



Questi due giorni nella stanza 101


abbiamo giocato a chi ha ragione e chi ha torto.



Nella stanza 101 le cose sono tutte scollegate,


si può ascoltare una persona senza ascoltarla,


si può baciare un uomo senza senza sentire le sue labbra,


si credere di poter scegliere di pensare ma si rimane di fatto scollegati.



Nella stanza 101 non decido mai io (io chi?)


Nella stanza 101 decide chi c’è in quel momento.


Nella stanza 101 ci sono sempre due mostri:


uno vive nella pancia e l’altro sopra la testa e intorno al collo.



Vi racconto come sono fatti, magari li conoscete.



Il mostro che abita nella pancia di solito dorme.


Disturba poco, si sveglia solo in alcuni periodi.


Si sveglia solo quando il mostro che vive sulla testa si agita tanto.


Quando si sveglia, non fa altro che dimenarsi tutto il giorno.


Sembra a volte che mi stia mangiando l’addome,


che si stia ingrassando. Che si stia dimenando.


Questo mostro si agita e si nutre di paure.


Solo queste possono dargli sufficiente energia per muoversi.


Quando si muove, si contorce e grida,


a volte manca il fiato. A volte


quasi non si riesce a mangiare, a dormire,


a sorridere.



L’altro mostro vive sulla mia testa, intorno al collo e sulle spalle.


Si sposta, ma è sempre lì.


E’ pesante e parla in continuazione.


Mi dice le cose che devo fare, mi dà sempre tanti consigli.


Mi dice i perché di qualsiasi cosa, sa sempre gestire la situazione.


Ha tutto sotto controllo, è affidabile. Tenerlo con me è rassicurante.


Non è facile camminare con tutto quel peso sulle spalle,


pesa davvero tanto tanto. Però ne vale la pena.


Ogni posto in cui vai, ogni cosa che fai, è prevista. Lui la sa.


La conosce. La sapeva prima e sapeva cos’era, com’era fatta,


il peso da darle. Tutto. Mi dice di chi e cosa mi devo fidare.


Sì beh tante volte non mi fa fare delle cose che mi piacerebbero,


però è utile. Magari quelle cose mi avrebbero fatto male!


Il mostro che mi vive sulla testa non vuole che io muoia.


E poi sa un sacco di cose, sarà per questo che pesa così tanto!


Non riesco mai a correre, a saltare e a giocare,


perché è davvero troppo pesante.


Tutto questo sapere pesa tantissimo.


Però vuoi mettere quanto si sta più al sicuro quando si sanno tutte le cose?



Come dici? Se sbaglia mai?


Beh, …..ovviamente no!




mercoledì 9 ottobre 2013

LA MASCHERA DELLA MORTE ROSSA

di Edgar Allan Poe


La Morte rossa aveva per parecchio tempo devastato la regione. Non si vide mai peste così fatale e orribile. Il suo emblema era il sangue — il rossore e l’orridezza del sangue. Cominciava coi dolori acuti, una vertigine improvvisa e poi uno stillazione abbondante attraverso ai pori, la dissoluzione dell’organismo. Delle macchie rosse sul corpo e specialmente sul viso della vittima, la mettevano al bando dell’umanità e le precludevano ogni soccorso a ogni simpatia.

Il contagio, il progredire, i risultati della malattia erano questione di una mezz’ora.
Ma il principe Prospero era felice e intrepido e sagace. Quando i suoi domini furono per metà spopolati, convocò un migliaio di amici vigorosi e di umore gaio, scelti fra i cavalieri e le dame della sua corte e con essi fece di una delle sue abbazie fortificate un ritiro profondo. Era un vasto e magnifico edilizio, una creazione del principe, di un gusto eccentrico eppure grandioso. Un muro spesso e alto gli faceva cintura.
Questo muro aveva delle porte di ferro. I cavalieri una volta entrati, con bracieri e solidi martelli saldarono i catenacci. Risolvettero di barricarsi contro le subitanee irruzioni della disperazione esterna e di chiudere ogni sbocco agli accessi interni.
L’abbazia fu abbondantemente approvvigionata. Grazie a queste precauzioni i cortigiani potevano sfidare il contagio. Al di fuori il mondo si aggiusterebbe come potrebbe. Intanto sarebbe stata una pazzia affliggersi e darsi pensiero. Il principe aveva pensato a tutti i mezzi del piacere. C’erano dei buffoni, degl’improvvisatori, dei ballerini, dei musicisti, il bello sotto tutte le forme e il vino. Dentro dunque, tutte queste belle cose e la sicurezza. Di fuori la Morte rossa.
Verso la fine del quinto o sesto mese mentre il flagello infieriva fuori più rabbiosamente che mai, il principe Prospero regalò i suoi mille amici di un ballo mascherato di una magnificenza rara.
Che quadro voluttuoso quella mascherata! Ma dapprima lasciate che vi descriva le sale nelle quali ebbe luogo. Ce n’erano sette: una sfilata imperiale In molti palazzi questa serie di sale formano una lunga prospettiva in linea diretta quando i battenti delle porte sono spalancati e accostati al muro da ogni parte, di modo che lo sguardo si spinge sino in fondo senza ostacolo. Qui la cosa era molto differente come c’era da aspettarsi dal gusto vivissimo del bizzarro che aveva il duca. Le sale eran disposte così irregolarmente che l’occhio non poteva abbracciarne più d’una alla volta. Uno spazio dai venti ai trenta yards e poi una brusca svoltata e ad ogni gomito un nuovo aspetto. A destra e a sinistra in mezzo al muro una finestra gotica alta e stretta dava su un corridoio chiuso che seguiva le sinuosità dell’appartamento. Ogni finestra aveva dei cristalli di colore in armonia col tono dominante nella decorazione della sala. Quella elle occupava la estremità orientale, per esempio, era parata di azzurro — e le finestre erano di un azzurro profondo. La seconda stanza era ornata e parata di rosso e i vetri eran pure rossi. La terza tutta verde come verdi le finestre. La quarta decorata in arancione era illuminata da una finestra arancione; la quinta bianca, la sesta violetta, la settima sala era sepolta letteralmente sotto dei panneggiamenti di velluto nero che coprivano il soffitto e i muri, e ricadevano in pieghe pesanti su un tappeto della stessa stoffa e dello stesso colore. Ma in questa camera solamente il colore delle finestre non corrispondeva alla decorazione. I vetri erano scarlatti, di un intenso color sanguigno.
Ora in nessuna delle sette sale a traverso gli ornamenti d’oro sparpagliati qua e là a profusione o sospesi al soffitto non si vedevano né lumi né candelabri. Né lampade né candele; nessuna luce di questo genere in quella lunga sfilata di stanze. Ma nei corridoi che le recingevano proprio in faccia ad ogni finestra, era piantato un enorme treppié con un braciere ardente che proiettava la sua luce attraverso ai vetri di colore e illuminava sfolgorantemente la sala. Così si produceva una moltitudine di aspetti fantastici e mutevoli. Ma nella camera di ponente, la camera nera, la luce del braciere che si spandeva sotto le tende nere a traverso ai vetri sanguigni era spaventevolmente sinistra e dava alla fisionomia degl’imprudenti che vi entravano un aspetto talmente strano che pochi fra i ballerini si sentivano il coraggio di mettere i piedi in quel magico ridotto.
In questa sala pure, addossato al muro di ponente si ergeva un gigantesco orologio d’ebano. Il pendolo andava e veniva con un tic-tac sordo, pesante, monotono; e quando la lancetta dei minuti aveva fatto il giro della mostra e l’ora stava per suonare, dai polmoni di bronzo del meccanismo sorgeva un suono chiaro, squillante, profondo e straordinariamente musicale; una nota così speciale e di una tal forza che i musicanti dell’orchestra eran costretti a interrompere un momento i loro accordi per stare a sentire la musica dell’ora; i ballerini allora smettevano necessariamente le loro evoluzioni; e finché vibrava la suoneria si poteva vedere i più matti diventar pallidi, e i più anziani e calmi passarsi la mano sulla fronte come in una meditazione o nel delirio di un sogno. Ma quando anche l’eco si era dileguata, una lieve ilarità circolava in tutta l’ assemblea; i musicanti si guardavano fra loro sorridendo della loro impressione e della loro sciocchezza e si giuravano sotto voce gli un gli altri che non proverebbero la stessa emozione al prossimo batter delle ore; e poi, scorsi che erano i sessanta minuti che comprendono i tre mila seicento secondi dell’ora, il fatale orologio suonava nuovamente ed era lo stesso turbamento, lo stesso brivido, le stesse meditazioni.
Ma nonostante ciò era una gaia e magnifica orgia. Il gusto del duca era del tutto speciale. Aveva l’ occhio sicuro per i colori e per gli effetti. Egli disprezzava ildecorunz della moda; i suoi progetti eran temerari e selvaggi, le sue concezioni avevano uno splendore barbaro. Qualcuno l’avrebbe giudicato pazzo. I suoi cortigiani sapevan bene che non era tale; ma bisognava sentirlo, vederlo, toccarlo per esserne sicuri.
In occasione di quella festa aveva presieduto lui in gran parte alla scelta dei mobili nei sette salotti e lo stile delle maschere era stato osservato secondo il suo gusto. Erano certo delle invenzioni grottesche. Era abbagliante, sfavillante — c’era anche del piccante e del fantastico — molto di ciò che poi abbiamo veduto in Ernani. C’ erano delle faccie arabe, ornate in una maniera assurda; invenzioni mostruose e pazze; c’era del bello, del licenzioso e del bizzarro in quantità; dell’orrido, ma poco; e cose ributtanti a volontà. A dirla in breve era come una folla di sogni che si pavoneggiassero qua e là per le sette stanze. E questi sogni si contorcevano in tutti i sensi, prendendo il colore delle stanze; si sarebbe detto che eseguissero della musica camminando, e che le arie strane dell’orchestra fossero un’eco dei loro nasi.
Di tanto in tanto si sente suonare l’orologio di ebano nella stanza dei velluti. E allora per un momento tutto si ferma e tace, eccetto il suono dell’orologio. I sogni sono irrigiditi, paralizzati nelle loro posizioni. Ma l’ eco della soneria si dilegua — non dura che un istante — e appena cessato un’ilarità leggera e mal contenuta circola dappertutto. E la musica respira di nuovo e i sogni rivivono e si contorcono qua e là più allegramente che mai, riflettendo il colore delle finestre per le quali passano a torrenti i raggi dei treppiedi.
Ma nella camera che è laggiù a ponente ora nessuna maschera ha l’ ardore di avventurarcisi; perché la notte è avanzata e una luce più rossa affluisce traverso ai vetri color sangue e il nero dei drappi funebri è spaventoso e allo spensierato che metta i piedi sul funebre tappeto, l’orologio d’ebano manda un suono più pesante, più solennemente energico che quello da cui son colpiti gli orecchi delle maschere che turbinano nella lontana noncuranza delle altre sale.
Quanto alle altre stanze quelle formicolavano di persone e il cuore della vita vi batteva febbrilmente. La festa tumultuava sempre quando finalmente l’ orologio diede il suono della mezzanotte. Allora la musica cessò; la danza fu sospesa e per tutto si fece, come prima un’immobilità ansiosa. Ma la suoneria dell’orologio questa volta aveva dodici colpi da battere; perciò è probabile che s’insinuasse un pensiero più lungo nella meditazione di quelli che in mezzo a quella folla festosa erano già pensosi. Per questo forse avvenne anche che molte persone di quell’ accolta prima che l’ultima eco dell’ultimo colpo fosse profondata nel silenzio avevano avuto il tempo di accorgersi della presenza di una maschera che fino allora non aveva punto attratto l’ attenzione. E la nuova di questa intrusione si era tosto sparsa con un bisbiglio all’intorno, poi con un brusio di tutta l’ assemblea ed un mormorare significativo di meraviglia, di disapprovazione e quindi di terrore, di disgusto.
In una riunione di fantasime quale l’ ho descritta ci voleva certo un’ apparizione straordinaria per produrre un tale effetto. La licenza carnevalesca di quella notte era, è vero, quasi senza limiti; ma il personaggio suddetto aveva oltrepassato la stravaganza di un Erode e superati i limiti — pure larghissimi — della convenienza imposta dal principe. Ci sono nel cuore dei più spensierati delle corde che non possono esser toccate senza produrre emozione. Anche nei più pervertiti, in quelli che tengono come un gioco la vita e la morte, ci sono delle cose colle quali non si può scherzare. Tutta l’assemblea parve sentire profondamente il cattivo gusto e la sconvenienza della condotta e del travestimento dello straniero. Il personaggio era alto e scarno, avvolto dalla testa ai piedi in un sudario. La maschera che celava il viso rappresentava così bene la rigidità della fisionomia di un cadavere che la più minuziosa analisi difficilmente avrebbe scoperto l’inganno. Eppure tutti quei pazzi gai avrebbero forse sopportato se non approvato quel brutto scherzo. Ma la maschera era arrivata fino a prendere il tipo della Morte rossa. Il vestito era chiazzato di sangue e la sua larga fronte come del resto tutta la faccia erano cospersi di quel terribile color scarlatto.
Quando gli occhi del principe Prospero si posarono su quella figura di spettro — il quale con un mover lento, solenne, affettato, girava qua e là fra i ballerini— esso fu visto dapprima sconvolgersi in un brivido violento di paura o di ripugnanza; ma subito dopo la fronte gli s’ infiammò di rabbia.
— Chi osa, — domandò con voce roca ai cortigiani ritti intorno a lui — chi osa insultarci così con questo scherno che pare bestemmia ? Impadronitevi di lui e toglieteli la maschera, che sapremo chi dovremo appiccare ai merli della torre, al levar del sole. —
Quando il principe Prospero pronunziò queste parole era nella camera Est, o azzurra. La sua voce rimbombò forte e chiara a traverso le sette stanze, perché il principe era un uomo imperioso e robusto, e la musica ad un suo cenno di mano s’ era taciuta.
Il principe dunque era nella camera azzurra con un gruppo di cortigiani ai suoi fianchi. Dapprima, mentre parlava, ci fu nel gruppo un leggero movimento innanzi verso l’ intruso, che per un momento fu vicino a loro quasi da toccarli, ed ora con passo sicuro e maestoso si avvicinava sempre più al principe. Ma quel certo terrore indefinibile ispirato a tutta la compagnia dall’audacia insensata dalla maschera fece sì che nessuno osò mettergli le mani addosso; cosicché non trovando nessun ostacolo, passò a due metri dalla persona del principe e mentre l’immensa assemblea, come obbedendo a un sol movimento indietreggiava dal centro della sala verso i muri, continuò la sua strada senza fermarsi, collo stesso passo solenne e misurato che subito da principio l’aveva contraddistinta, andando dalla camera azzurra alla camera rossa — da questa a quella verde — dalla verde all’arancione da quella alla bianca — e poi alla violetta, prima che nessuno avesse fatto un movimento decisivo per fermarla. Tuttavia il principe Prospero esasperato dalla rabbia e la vergogna della sua momentanea debolezza si slanciò precipitosamente traverso alle sei stanze, dove nessuno lo seguì; perché un nuovo terrore si era impadronito di tutti.
Egli brandiva un pugnale e si era avvicinato impetuosamente al fantasma che batteva in ritirata, quando quest’ultimo, arrivato in fondo alla sala dai velluti, si volse bruscamente e fece fronte a quello che lo inseguiva. Un grido acuto si levò, e il pugnale scivolò con un lampeggiamento sul tappeto funereo sul quale il principe Prospero un secondo dopo cadeva, morto.
Allora, chiamando a raccolta il coraggio violento della disperazione, una folla di maschere si precipitò nella sala nera; ma afferrando lo sconosciuto che stava diritto e immobile come una grande statua nell’ombra dell’orologio di ebano, tutti si sentirono soffocati da un terrore indicibile, vedendo che sotto il lenzuolo e la maschera cadaverica che avevano abbrancata con sì violenta energia non si trovava nessuna forma tangibile.
Allora fu riconosciuta la presenza della Morte rossa. Come un ladro, di notte essa era sopraggiunta. E tutti i convitati caddero uno ad uno nelle sale dell’orgia bagnate da una rugiada sanguinosa ed ognuno morì nella disperata positura in cui era caduto soccombendo. E la vita dell’orologio d’ebano si spense con quella dell’ultimo di quei personaggi festanti. Le fiamme dei treppiedi spirarono. E le tenebre, la rovina e la Morte rossa distesero su tutte le cose il loro dominio sconfinato.

Traduzione di G. A. Sartini
R. BEMPORAD & FIGLIO
1911





sabato 18 maggio 2013

6:59



Di Daniela Pasiphae Coin






Faccio il giro del mondo
Un tempo per essere così piccoli
Il vento ci porterà
In un Paradiso Perduto

Un pioniere alle cascate
Lascio la droga
Di cosa stiamo parlando?
Non ci sono “se”

Ho una tua foto
Per Sempre
E nel vederti
Sto sempre male

No, sono nel triangolo
Ma dammi un’altra chance
Ti invito al viaggio
Una strada nuova

Piangi Roma
In una fredda pioggia di novembre
Noi due vecchi amanti

Vattene via
Per vie fascinose
Amore Boehmien

Nella notte
Abbiamo giocato per oggi
Una notte come questa

Sotto la Strada Ovest
Tra sesso e castità
Costruire una casa

La memoria serve
I vuoti a rendere no

Un passeggero
La canzone del vento
Un mito
Fuori dal tempo

Qualcuno
I robots
Non sono a casa
Io guardo te

Sono solo a Kyoto
In un club astronomico
Tattiche autunnali

Di sera
Prendila così
Le reagioni delle piogge

Un messaggio nella bottiglia
“L’Amore ci farà a pezzi”


venerdì 15 febbraio 2013

Everloving, Proiezione di una Vita

di Daniela Pasiphae




Io e lui ci siamo conosciuti nel 2002,
frequentati qualche mese e poi persi di vista.
Legati per undici anni in un tira e molla di apparizioni infinite,
più o meno costanti. Logoranti.
Nel 2013, ad aprile, ci siamo rivisti, per caso.
Io ero pronta, avevo scelto e messo il cuore in pace
e così l'Universo me l'ha assegnato. Donato.
"E' un dono prezioso" mi hanno detto "Trattalo con riguardo,
non scalfirlo, onoralo. Non graffiarlo, accarezzalo.
E' delicato, non urlare. Lascia che ti ami.
Amatevi, non abbandonatevi all'invidia, datevi amore.
Datevi la mano, abbracciatevi. Non usarlo, non legarlo.
Ascoltalo. Taci ed ascoltalo, è il dono più prezioso che hai,
è la via per la tua salvezza, e tu sarai la via per la sua gloria."
Allora, pensai, è lui che mi salva? Mi sta salvando?


Presente: abbiamo una casa, è molto, molto, molto bella.
Stare con un architetto, artista sensibile,
non può che donarti una casa meravigliosa.
E' essenziale, minimal, come piace a lui.
Legno caldo con inserti laccato bianco o nero,
tavolo di cristallo bianco e acciaio.
Specchi. Finestre e tanta luce. Un giardino, ampio.
Bambù, aceri rossi e verdi. C'è qualcosa di giapponese.
A lui piace il Giappone. A me anche.
C'è anche il laghetto con le carpe colorate.
Non siamo sposati, ogni mattina ci svegliamo e ci scegliamo.
Io scendo, scalza. Preparo la colazione. A lui il caffé.
So che non gli fa bene ma a lui piace e io sorrido.
Glielo servo sul vassoio, è in legno e ripiano in cristallo fumé.
Appoggio il vassoio sulle coperte, di fianco a lui.

Di fianco al caffé, anche un bicchiere per me.
Mi inginocchio sul letto accanto a lui, col rigore di un'orientale.
Gli sposto i capelli dalla fronte, scendendo in una carezza
lungo i profili che così tante volte ho sognato. Vaghi.
Ma oggi no, oggi è qui. Sta sorseggiando il suo caffé,
l'ho fatto io. Nella mia cucina. Sì, ho una mia cucina.
Dopo anni ed anni a progettarne, dopo averne vendute.
Ho una mia cucina e, non direste mai, mi piace cucinare.
Ho tempo. Sì, lui va in studio, ci va all'ora che vuole.
Infatti, dopo il caffé, accadrà quel che accade tutte le mattine.
Sì lo sento. Non serve dirselo. Accade e basta.
Tra le coperte, bianche, dopo il caffé e la mia spremuta,
ci arrotoliamo e, per quasi un'ora, rotoliamo sul letto.
A volte nemmeno facciamo l'amore, non ci interessa.
Spesso sì, ci piace, Di mattina. Senza orari.
Poi mi prende in braccio e mi porta in bagno,
ormai è un rito, accade sempre così. Mi prende, di peso,

e mi butta sotto l'acqua, e non so mai se sarà fredda o calda.
Qualche volta me l'ha fatta, era fredda ed ho urlato e riso tantissimo.
Dopo la doccia, io resto seduta, avvolta nell'accappatoio,
lo guardo mentre si rade, si veste e poi lo accompagno dabbasso,
gli passo la giacca, controllo che abbia tutto e che sia tutto in ordine,
ci diamo un bacio e lo guardo dalla porta o dalla finestra mentre esce di casa.
Prima di voltare l'angolo mi fa una specie di cenno con la testa,
e poi lo lascio alla sua giornata. Ah, non l'ho detto.

E' una persona onesta, buona. Io lo stimo, lo ammiro.
Mentre lui non c'è io bado alla casa, tengo tutto in ordine,
lavo, stiro le sue camice, tengo la musica alta e ballo.
Poi mi dedico alla mia attività, eventi, associazione.
Ricevo pazienti quando ho appuntamenti, per il resto
faccio la spesa, mi occupo dell'amministrazione della casa,
sito web, i miei e anche il suo. Faccio delle commissioni,
spesso anche qualcuna che mi assegna lui.
Penso e mi adopero per renderlo felice. So che io non basto.
Non mi sto sminuendo, io do tutto quello che ho.
A lui occorre affetto,
dedizione, amore.
Sentimento.
Libertà.
Fiducia.
A me non importa cosa fa, a me basta che sia felice.
Io sono qui per essere felice e per renderlo felice.
O per fare il possibile perché lo sia.
La sera rientra, mai troppo tardi, sempre per cena
a meno che non abbia qualche appuntamento di lavoro.
In quel caso mi avvisa. Io non mi domando con chi sia.
Voglio che sia felice e faccio il possibile perché lo sia.
Il resto non è di mia competenza e non me ne preoccupo.
Ceniamo sempre parlando poco, io rispetto la sua quiete,
ma quando mi chiede di raccontargli qualcosa, allora
beh allora mi sento ancora meglio. Gli parlo, ma poco
in punta di piedi e mai con enfasi. Sempre serenamente,
se lo merita. Abbiamo tutto, e anche grazie a lui.
Un bimbo? No, non per adesso. Io sono pronta ma
voglio che sia una decisione sua, che lo desideri anche lui.
Sì, ci piacciono molto i bambini. Non è un'ipotesi che scartiamo.
Il dopo cena è un'esperienza diversa tutte le sere,
a volte parliamo, a volte lui lavora ed io lo guardo,
gli domando cosa fa, dei suoi progetti, delle novità.
Altre volte disegna, suona, compone musica.
Io lo lascio tranquillo quando crea, mi piace vedere
mi piace ascoltare, guardarlo mentre è impegnato.
Ci starei ore a sorreggermi la testa mentre lo osservo creare.
Spesso lavoriamo a cose diverse, ma vicini, nella stessa stanza,
oppure in stanze separate ma io ogni tanto passo da lui
chiedo se è tutto ok, se ha bisogno di qualcosa,
gli do un bacio e lo lascio nei suoi mondi. E me ne vado nei miei.

Il pregio di stare bene con se stessi è che non bisogna sempre,
necessariamente, stare con qualcuno per essere felici.
Ci basta che quel qualcuno sia felice e così stiamo bene.
Altre volte vediamo un film, stesi in divano, abbracciati.
Ma andiamo a letto assieme, questa è una regola implicita ormai.
Solitamente è lui a scandire i ritmi, io mi adeguo.
Quando decide di andare a dormire mi avvisa,
si stende e dopo due minuti arrivo io.
In inverno questo serve a scaldarmi il posto.
Ci abbracciamo e qualche volta ci addormentiamo così.
C'è un'altra regola.. Non ci si addormenta mai con dei sospesi.
Se dobbiamo dirci qualcosa, senza troppi giri di parole,
prima di dormire ne parliamo cinque o dieci minuti.
Io ringrazio sempre l'Universo per il dono che mi ha fatto.
Poi spengo la luce, mi stringo a lui e dormo sonni tranquilli.
I sabati e le domeniche sono diversi, quasi sempre usciamo.
Andiamo al mare o in montagna. A visitare città, mostre.
Al cinema, in qualche locale, a ballare, dipende.
Qualche volta usciamo con gli amici, qualche serata
raramente, ma non c'è nessun vincolo o limite.
A volte andiamo a cena da sua madre, a volte dalla mia,
dipende. Più spesso andiamo dalla sua, mi piace,
mi ci trovo bene. Però non so se a lei piaccio.

Perché sto con lui?
Lo stimo, lo ammiro. Mi piace nel bene e nel male.
Mi piace l'idea di poterlo accompagnare in questo viaggio.
Nessuna pretesa, nessuna presunzione, niente che non sia semplice.
Condivisione, gioia, affetto,
prendersi cura l'uno dell'altra.
Un percorso insieme, l'impresa di amarsi,
essere sinceri, corretti, onesti e leali.
Capirsi, parlarsi. Adeguarsi e farlo con affetto.
Cessare l'eterna ricerca dell'inaccadibile,
smettere di credere che esista qualcuno di più giusto.
Più bello, più intelligente, più colto, più ricco,
più salvifico.
Io voglio protezione, affetto e cura. Stabilità.
Voglio potermi dedicare ad una casa, fare il mio lavoro in pace,
condividere gli spazi con un essere speciale,
una persona dall'animo semplice, delicato, fragile.
Ho imparato a non essere violenta per avere questo.

A non essere emotivamente disonesta.
L'ho imparato per lui. Per non ferirlo.
Posso non ferirlo. Voglio non ferirlo.
Non solo, voglio dargli la possibilità di vedermi,
di sentire quel che c'è per lui, sempre,
stima, ammirazione, affetto e cure, fiducia, dedizione,
amore, sesso, pazienza, condivisione e complicità.
Non esistono alternative a questo,
se non un'infinita e logorante ricerca dell'alternativa.