giovedì 25 agosto 2011

Sulla falsità (che poi, forse, è solo paura)

di Daniela Coin
tratto da The Disciples



Insomma io nacqui per saldare per bene questa unione convenzionale.
Era il duemilatre, venticinque dicembre. Come Gesù. Però io non nacqui in una grotta bensì al Guy’s Hospital di Londra. La mia famiglia era a Londra in quel periodo. Un bel periodo per noi. Io non lo ricordo ma so che eravamo felici. Mia madre suonava il pianoforte nel nostro attico in quel di Knightsbridge. Mio padre rientrava la sera e la baciava, poi veniva a giocare un po’ con me, facendo facce sceme, e infine si sedeva a tavola. Un po’ di violini in sottofondo e una signora gallese col grembiule sempre pronta a servire loro delle pietanze squisite.
Era tutto perfetto. Non mancava nulla.
Nulla.
A parte l’amore.
Tutti i loro gesti erano – convenzionali. Studiati. Imparati dalla società e dai film. Il bacio appena rientrava a casa, la mano davanti alla bocca quando tossiva. Il sorriso di mia madre che ricalcava quelle splendide donne dei film della metà del novecento. Sorrisi da film. Da prostitute ben pagate.
Ma mia madre non aveva bisogno di soldi. Aveva tutto. Una villa enorme a Melbourne, un attico a Vienna. Cinque studi di architettura in tutto il mondo. Aveva delle passioni. Suonava il pianoforte ed era molto brava. E poi amava dipingere. Sì è vero, faceva schifo in cucina ma questo, coi soldi che aveva, non era di certo un problema. Non capivo proprio come potesse sacrificare la sua vita insieme ad un uomo che non amava veramente.
Sì, stavano bene, si volevano bene e si rispettavano.
Un’unione così andava bene per la gente povera, quella che non riusciva a pagarsi l’affitto da sola ed aveva bisogno di sommare il proprio stipendio con quello di un altro essere, possibilmente di sesso opposto. Poi, tanto per essere certi che questo non scappasse, ci facevano uno o due figli e poi, crescendoli, gli spiegavano che erano molto poveri e che non potevano comprare loro i giochi che tanti bambini a scuola con loro avevano. Allora questi piangevano ed i genitori gli urlavano di stare zitti. La sera litigavano, a volte si tradivano. E altre volte - anche!
Non so, forse era solo paura.
Sai, la solitudine, l'angoscia. Un brutto affare.
Ma mia madre poteva evitare questa infinita tristezza. Secondo me poteva. Anche starsene da sola. Magari con me. Da soli io e lei. Tanto andava comunque sempre a finire che mio padre, per lavoro o per donne, tornasse la sera molto tardi, lasciando comunque me e mia madre da soli tutto il tempo.
Venne poi il giorno in cui quell’equilibrio – quella finzione – cessò di esistere. Non so bene come accadde, certe dinamiche accadono e basta e tu sei talmente incantato, lì, dalla loro bellezza che non riesci ad accorgerti del procedimento. Ti sfugge proprio. L’attenzione, tutta la tua attenzione, viene rapita dal fascino di quel gesto o di quell’istante in cui accade. Non c’è una regola. Non hai nemmeno il tempo di pensare che possa esistere una legge che spieghi come accade quell’istante in cui le cose cambiano per sempre. Però succede sempre. Tutti i giorni, tutti i momenti, da qualche parte nel mondo, c’è qualcosa che sta cambiando per sempre la vita di qualcuno.
Io avevo quasi sei anni e mio padre rientrò col più banale degli indizi al collo. Come nei film anni ottanta. Una macchia di rossetto sul colletto – bianco – della camicia. Io non ne capivo niente di cinema e non sapevo che le donne sporcassero i colletti delle camicie degli uomini con cui andavano a letto. Mi sembrava ridicolo. Eppure c’era chi lo faceva.
Mio padre rientrò come nulla fosse. Mia madre arpeggiava una melodia inventata tenendo il suo violino appoggiato alle gambe, raccolte sul sofà. Io me ne stavo buono buono sul tappeto del soggiorno a giocare con tantissimi animaletti di plastica. Avevo un’arca di Noè. Anzi, mi sa che Noè lo surclassavo di brutto! Coi cavalli e con le pecorelle, che erano quelle che avevo rubato dal presepe, sono certo che lo fregavo proprio! Allora mio padre si avvicinò a mia madre, come al solito, e le diede un bacio. E lei gli piazzò uno schiaffone nel muso che gli fece volare gli occhiali addosso alla parete, spaccandoli senza pietà. Poi si alzò con grazia ed amarezza, prese il telefono e chiamò un taxi. Mi infilò il cappottino, era bello. Aveva dei bottoni grossi davanti ed un cappuccio che mi faceva sembrare un folletto. Ed era tutto verde perché in quel periodo era Natale a Londra. E anche dalle altre parti, si capisce. Mi portò in un grande hotel ed io, di strada, mi immaginavo mio padre, accecato, che si scolava una bottiglia di quelle che teneva lui nella sua speciale cantina-frigo.

lunedì 15 agosto 2011

Da seguir le parole con l'indice di una mano

di Rocco Bonelli



Io sono l'ultimo gladiatore nella nuova Roma.
Vado nell'arena per competere contro la distruzione e vinco.
Scrivo un proclama e non voglio niente, eppure certe cose le dico, e sono per principio contro i proclami, come del resto sono contro i principi.
Parlo sempre di me perchè non voglio convincere nessuno, non ho il diritto di trascinare gli altri nella mia corrente, non costringo nessuno a seguirmi e ciascuno si faccia l'idea che gli pare.
Sono contro l'aborto perchè rifiuto una soluzione comoda per una maggioranza che ha reso più facile il coito.
Questa libertà la vuole il potere dei consumi.
Rendendo il coito più facile, esso impone l'accesso alle lusinghe consumistiche.
Così, la coppia è più consumatrice che procreatrice e la libertà sessuale della maggioranza rivela solo convenzionalità, obbligo ed ansia sociale.
Non credo nel progresso, non credo nello sviluppo e nella fattispecie in questo sviluppo.
L’affannoso tempo presente non era il tempo dei contadini, serpentino, ciclico, ritmato dalle stagioni, dai soli e dalle lune. Il povero, infatti, coniuga i verbi al presente, non conosce le lusinghe ingannevoli del futuro, contrariamente al ricco che costruisce strategie nel tempo tracciando precari piani e ipotetiche prospettive.
Non posso soffrire i sapienti, preferisco di gran lunga le persone che possibilmente non abbiano fatto nemmeno la terza elementare.
 Non ci metto della retorica in questa affermazione.
 Lo dico perché la cultura medio-borghese è qualcosa che porta sempre alla corruzione.
Mentre un analfabeta, uno che abbia fatto solo i primi anni delle elementari ha sempre una certa grazia, che poi va perduta attraverso la cultura.
Non è per me stesso che mi rammarico, non sono in pena per me.
Piuttosto sono rattristato dall'esser consapevole della forza distruttrice del progresso scientifico.
Per questo, dico, io prevedo un epoca nella quale ci sarà un metodo farmacologico per far amare alle persone la loro condizione di schiavi e quindi produrre dittature senza lacrime.
Una sorta di campo di concentramento ideale in cui le persone saranno private di tutto, ma ne saranno piuttosto felici.
Oh no, ho detto fin troppo ma non ho detto abbastanza.
Ho posato gli attrezzi e i fili, ho spaccato la legna e acceso il fuoco, ho illuminato la mia casa e così, nella sicurezza della notte, me ne stò zitto come un topo perchè gira voce che Dio è nella casa.
Mi sono svegliato stamattina con la TV che strepitava.
Mi preparavo la colazione guardando il telegiornale.
L'oceano era un mar rosso ma non c'era nessuno che lo dividesse a metà.
Niente insalata fresca poichè le piantagioni erano contaminate.
La Sicilia è scomparsa a mezzogiorno e dicono che la borsa è in grave pericolo e la NASA ha fatto esplodere la luna.
L'atmosfera è ormai priva di ozono e mi sono innamorato ancora una volta della ragazza sbagliata.
Hanno arrestato il sindaco per associazione a delinquere, l'Arena di Verona venduta ai cinesi, omosessuali vagano per le strade in gruppi, picchiatori di froci con i cric, le lesbiche contrattaccano.
E i talebani hanno comprato la bomba atomica, se perderanno, vogliono andarsene in grande stile.
E non c'è niente da mangiare che non abbia il fetore di qualche cadavere scaricato nel Gange.
Beh, almeno questa è vera: qui nessuno sa cosa fare.
Dicono che ci sono stati almeno 200 morti in una piccola provincia americana, un automobilista impazzito è entrato in un senso unico uccidendo tutti quelli che incontrava, ora è in carcere e arde luminosamente.
Gli opinionisti dicono che dobbiamo fare il male perchè ne derivi il bene.
Beh, conosco una cosa che è vera per davvero: questo qui è un circo ed io non ne posso più.
Piccoli medici bene intenzionati, astemi totalitaristi in cura disintossicante, gli alticci, quelli che barcollano e gli ubriachi che cadono in terra.
Ho gambe e braccia contratte, lo stomaco che rigurgita il cibo.
Hanno scoperto una nuova specie di scimmia, era un infiltrato che mangiava pneumatici dopo aver stirato il capo del governo.
Dicono che il papa è morto, nessuno riesce a ritrovare la sua testa, sono settimane che è stata smarrita.
Sembrava che fosse così in forma.
E io non ne posso più.
Rocco Bonelli

lunedì 18 luglio 2011

Zeus Pater


di Daniela Pasiphae 

Un uomo mi guardava. Erano giorni ormai che, ansante, tra tutti, sceglieva di guardare me.
Mi causava quella strana sensazione, come quando vieni rapito dai piccoli gesti, eseguiti con precisione ed impegno. Guardi una persona che si applica, la osservi compiere lo stesso gesto, magari più volte. Una donna che piega degli inviti, che si spazzola i capelli. E provi quella sensazione di completezza che sembra quasi farti una carezza. Ti corre un brivido. E poi ritorni sulla terra.
Miriabel mi causava quelle stesse sensazioni. Ma io ero troppo impegnato a farmi guardare dall’uomo, in quel momento, per accorgermi che oramai, Miriabel, si era addormentata. Lì, schiacciata dall’abbondante corpo della madre, sporca, anch’essa dormiente.
Io a volte fingevo di dormire ma il più delle volte rimanevo con gli occhi socchiusi e contemplavo la bellezza di quelle vite.
Nessuno si avvicinava a me, forse per il mio odore. Dicevano le donne che puzzavo ma a me sembrava puzzassero loro. Ad ogni modo, me ne stavo in disparte per non infastidirle. A volte Miraibel si alzava e veniva da me, nel mio angolino di mondo. Si inginocchiava e mi guardava, ma senza toccarmi. Se ne stava lì, soave, con occhietti curiosi e vivaci.
Come potesse essere felice in mezzo a tanta miseria, rimaneva un mistero anche per me.
A volte cercavo di allungarmi verso di lei, volevo che mi toccasse. Ma lei, con fare preoccupato, si voltava indietro a controllare se la madre la stesse osservando. Sempre, quando la vedeva in mia compagnia, urlava e abbozzava gesti violenti verso la piccola. Scacciava me in malo modo, facendo volare calci che prontamente schivavo, ed afferrava la piccola per un braccio e stringeva forte.
Mi cavava il cuore ma non volevo e non potevo intromettermi. Modificare il corso delle cose, anche se avrei potuto. Alcuni giorni piangevo, sapendo di ingannare ma non potevo farne a meno, ed allora lei correva da me, di nascosto, e mi porgeva tutto l’Amore dell’Universo, racchiuso in qualche grammo di pane. Se lo toglieva dalla bocca con delicatezza, e me lo porgeva. Io lo mangiavo anche se davvero non riuscivo ad assaporarne il gusto.
Portata da chissà quale illuminazione, allo stremo della più alta forma telepatica presente in terra, un giorno decise di darmi un nome. Mi chiamò Zeus.
Dopo circa venti giorni di auto-prigionia, arrivò un uomo contenuto in una specie di tuta spaziale, ed aprì la porta del bunker. “Uscite!” urlò. Abbassai la testa e feci finta di non esistere quando mi guardò, stupito.
“Che ci fa quel cane qui dentro!?”
Lui urlò ma Miriabel lo sovrastò, rompendo l’eco dei passi cadenzati ed ordinati che si dirigevano verso l’uscita!
“Non lo tocchi!”
Urlò fuori anche l’anima. Si scagliò addosso a quell’uomo che era cinque Miriabel in un corpo peloso e senza cuore. Lui la spinse lontana facendola cadere. Saltai su quell’uomo, gli lacerai la tuta, gli staccai quasi una mano con un morso. Mi voltai poi e corsi da Miriabel, lasciata a terra svenuta. La madre, mi guardai intorno: no. Miriabel era stata lasciata indietro dalla fretta di sopravvivere. Feci per correre a cercare quella donna grassa quando ricevetti un colpo in testa. Dopo di questo ricordo solo la mannaia del cuoco del campo di sostentamento, calare sulla mia pelliccia, sulla mia pelle e sulla mia carne. Il sangue che sgorga e se ne va. Ed io che torno al Tutto.

“Dov’è la mia mamma? Dov’è Zeus?” singhiozzava e piangeva. A volte smetteva e, cercando di asciugarsi il visetto, si sporcava la faccia di terra. La guardavo. Desideravo intervenire in qualche modo ma, perché? Aveva già perso la madre per colpa mia.
La guardavo inginocchiata a fare niente. A contemplare l’assenza di amore e di cure.
Nove anni e un mondo che ormai non c’è più.
Pietre su pietre di un’Atene dimenticata da tutti gli Dei del pianeta. Tutti ad usarla prima e a rinnegarla, poi. Nessun Dio capace di interrompere il libero arbitrio per salvare quella città.
I templi, i monumenti. Chiesi anche a Gesù di Nazareth, quel giorno, se non fosse il caso di agire per salvare le nostre dimore sacre. I simboli che ci avevano resi noti. Ma noi poveri Dei avevamo sempre e comunque da rendere conto al Tutto. Quello che i cristiani chiamavano “il Dio senza volto”.
Così Gesù parlò: “Beati gli Dei che sapranno rispettare l’Uomo ed il suo libero arbitrio” e bla bla.
Decidemmo così di assistere, inermi, alla distruzione del loro mondo conosciuto e all’inizio della fine della loro specie. Il virus che tanto, ognuno a modo suo, avevamo provato a guidare e a condurre sulla retta via, era arrivato alla penultima fermata del capolinea.
Poveri uomini, pensavo quotidianamente, rigirandomi un fulmine fra le dita. Poveri esseri umani; si preoccupano per la Terra. “Salviamo il Pianeta” “Abbiamo distrutto la nostra amata terra”. Povera egocentrica creatura, che tanto parla quanto pensa. La Terra esiste da miliardi di anni e l’uomo l’ha abitata solo per lo 0,22% del suo corso. Può dunque anche solo vagamente immaginare di essere la causa della fine di un pianeta? L’uomo se ne andrà e Madre Natura ridipingerà di verde e blu tutta la sua superficie e questo uomo, chiamatosi doppiamente sapiens in nome di chissà che cosa, rimarrà solo un’esperienza da ricordare”.
“Parli male Zeus” mi apostrofò di nuovo il nazzareno “senza di loro non esisteresti tu e non esisteremmo noi.”
Gli risposi: “Mio caro Immanuel, non esistendo non credo potrei preoccuparmi di non esistere”.
Gesù se ne tornò così a curare i casting per i santi e le apparizioni ed io, misero, iniziai a vagare sottoforma di cane ferito. Andai pe’ la Terra cercando una buona ragione per ovviare alla folle idea della distruzione totale che mi solleticava la mente, in barba al Padre Eterno e al suo libero arbitrio.
Guardavo, attraverso il vuoto della mia anima, i corpi lacerati dai bombardamenti. La mia amata Grecia sommersa dai gas tossici. Le piaghe sulla pelle delle donne mediterranee. Atene dilaniata. Le pietre e la polvere. La nebbia e ancora, le urla ed i pianti.
Scorsi una creatura che, in mezzo alle urla, sembrava non curarsi del pericolo e di quanto la sua vita fosse appesa ad un filo. Sembrava non concepire il dramma che si svolgeva intorno a lei. La madre piangeva e lei rimaneva impassibile. Pensai fosse in stato di shock fino a che non mi guardò, completando l’opera con un sorriso sincero e puro. Mi indicò con un ditino e prese a ridere.
Da quel giorno mi innamorai di lei. Quel giorno, per la prima volta, capii che l’essere umano, nella sua essenza più vera, era una creatura straordinaria. E per cinque anni le rimasi accanto.
Fui il suo pesce rosso, per farla ridere. Fui la sua mela per entrare in lei. Fui l’acqua del mare e la feci immergere in me. Per cinque anni divenni lo scoiattolino nel parco e il fiore nel suo giardino, il vento per accarezzarla e il fuoco per riscaldarla.

E quel giorno lei, cinque anni dopo, era lì, in mezzo a quel che rimaneva di una delle principali vie della capitale. Lei, così triste, ormai rimasta sola al mondo. Quel giorno mi accontentai di sfiorarla appena, scendendo su di lei per lavarle il volto rigato. Stupito, mi accorsi che Miriabel, invece di correre a ripararsi, accettò con inconsapevole umiltà il mio gesto di totale Amore e rimase lì, a farsi lavare il corpo e l’anima dalla mia essenza più fredda ed umida. Scendevo su di lei, la mia pioggia l’accarezzava. E la baciavo, a modo mio.

Qualche giorno dopo tornai da lei. Non volevo assisterla nel suo smarrimento. L’amavo così tanto da rispettare ogni suo gesto. Conscio del fatto che mai avrei saputo oppormi dall’intervenire, in caso l’avessi vista in estremo disagio, decisi di lasciarla sola per qualche giorno in modo da lasciare che risolvesse quella situazione da sola.
La rividi in un campo di sostentamento. L’avevano messa a lavorare la terra, povera piccola. Aveva le manine secche, la pelle ferita, il viso sporco e verdura radioattiva da raccogliere. Quando mi vide, in mezzo alle foglie pungenti, il mio animo sorrise e ringraziò la vita per quell’espressione di felicità che vidi possederla in volto.
“Ciao coccinella” mi sussurrò, chinandosi sul mio esile corpicino, a pochi centimetri di distanza. Non lo potevo sentire ma l’idea che il suo fiato mi stesse accarezzando mi riempiva di gioia. Nessuno lo vide ma fu la prima volta che una coccinella pianse.
Il momento in cui scappò via per tornare al suo lavoro, felice forse per qualche attimo, ritornai sopra le nubi chimiche, ad impastare nuovi fulmini radioattivi.
- Cosa ti affligge, Zeu pater?
- Amo una donna.
- E sai che novità.
Hera, dopo anni ed anni, una volta messi gli Dei da parte, non più pregati ed invocati dagli uomini, aveva cessato le sue folli gelosie e i suoi sfoghi di frustrazione a causa delle mie plurime relazioni sessuali. Felicemente appagata da svariati rapporti extraconiugali, aveva ripreso il ruolo che avrebbe sempre dovuto ricoprire, quello di sorella ed amica.
- Quella non è una donna, comunque, fratellino. Sulla Terra ti impiccherebbero per pedofilia.
- Mai ho deturpato la sua essenza pura e mai lo farò. Io amo la sua anima.
- Sarà…

Tornai ancora da lei il giorno seguente, di notte stavolta. Entrai nei suoi sogni sottoforma di lupo, quel che lei chiamava cane. Il cane Zeus. Sempre nello stesso sogno, diventai poi pioggia e coccinella. Volevo che capisse che c’era un’essenza unica in tutte le cose cui lei sorrideva.

Passavano i giorni ed ognuno di questi era un giorno felice.
Nessuno capiva come mai, nella miseria, la piccola Miriabel fosse sempre felice.
Ogni mattina si svegliava, accompagnata da me per mano fino all’uscio del suo stato di riposo. Ed iniziava la giornata con occhi attenti, vispi, in cerca di ogni segno capace di riconoscere la mia essenza che dimorava in altre forma di vita. Quasi parea un gioco e lei cresceva e si divertiva.
Sapevo che la coccinella era l’animaletto che più la faceva sorridere. Mi lasciavo accarezzare il codone da scoiattolo o cinguettavo splendide melodie per alleviare le sue fatiche.
Dopo qualche anno, raggiunta l’età fertile, iniziai a pensare a lei in toni più sostenuti. Era così che mi capitava spesso di essere il vento che scivolava sulla sua pelle bagnata, in quei fasti momenti in cui, al suo corpo, era concesso un bagno. La irritavo, causandole brividi e pelle d’oca. Il freddo che provava le faceva irrigidire i capezzoli e mi bastavo di quello splendore.
La sera poi, nell’attesa che si addormentasse, aspettando di ricongiungermi a lei, mi lasciavo cullare dalle nubi e pensavo “Chissà se domani si accorgerà di me”.

Aveva appena quindici anni. La accompagnai sull’uscio, davanti a noi la luce del giorno.
Rientrai nelle tenebre del sogno e venne a me Morfeo.
- Zeu pater!
- Ola Morfeo!
- Ola? Da quando si saluta una divinità in questo bizzarro modo?
- Morfeo, siamo nel 2030, potresti osservare il mondo degli uomini che ti alimentano e curarti di ampliare la tua cultura! Infondo non siamo più noi a governare la loro vita. Le loro paure, le loro angosce, non ci appartengono più.
- Ci sono ancora persone che temono le tenebre, i mostri, la morte. Ade questo lo sa bene.
- A parte Ade e la paura che molti hanno di lui – continuai – l’uomo terrestre ora teme la sua stessa specie. Prima ne ha fatto una divinità e poi si è permesso di usurparla.
- Spiegami Zeus, mai nessuno parla con me. Io rimango sempre in questa dimensione dove non so mai se quel che vedo e sento corrisponde al vero o se è solo una misera creazione istigata da un videogioco o dall’ennesimo film o racconto.
- Mio caro Morfeo, devi sapere che l’uomo ha creato il danaro, la ricchezza, ed in nome di questa ha distrutto i suoi simili, per accumulare sempre più oro e sempre più carta.
- Carta? Da quando la carta ha valore?
- L’uomo ha stabilito che la carta ha un valore se forgiata in un determinato modo.
Morfeo non credeva alle mie parole.
- Per tutti i fulmini, davvero mi stai dicendo che l’uomo che ogni giorno vedo tenere in mano fogli di carta colorati, crede che questi abbiano un valore reale?
- Certo. Ha preso della comune carta e l’ha dipinta, scrivendoci sopra dei numeri a dettarne il valore. Non solo caro Morfeo, l’uomo ha distrutto le vite di miliardi di esseri viventi in nome di questi fogli colorati.
Il mio amico Morfeo se ne tornò a dirigere i sogni, sconsolato. “Chissà se ci rivedremo ancora” mi disse, saggiamente. 

Tornai, quel pomeriggio, dopo un lungo peregrinare sottoforma di aquila. Ovunque,
solo desolazione. Morte e fame. Piaghe e smarrimento.
L'uomo ce l'aveva fatta, ancora. Ma stavolta, forse, sarebbe stata la volta giusta.

- A cosa pensi, fratello? - mi chiese mia sorella, Hera.
- Che forse l'uomo, stavolta, è al capolinea.
- Lo credo anch'io.
Lei parlava sempre con quel suo fare sostenuto, come una che ancora gode del rispetto del suo popolo.
- Sorella, pensavo: se io mi prendessi quella ragazza, nessuno se ne accorgerebbe. Il destino dell'uomo non cambierebbe, questo è evidente.
- Che ne sai tu di quel che è evidente? Conosci forse il futuro degli uomini?
- Ma Era, per tutti gli Dei! Mi sembra così evidente. un'anima sola al mondo, il pianeta in rovina. Il genere umano non si accorgerà nemmeno della sua sparizione.
- E lei cosa ne pensa?
Mi dileguai e andai da lei.

Quando mi calai di fianco a lei, mi accorsi che stava piangendo.
"Cosa ti succede piccola?"
Lei si voltò e mi vide. Pensai potesse avere paura di me e così decisi di non mostrarmi, ancora una volta, con la mia reale forma.
Le parlai assumendo le forme della nonna, ormai defunta, che lei interpretò come ologramma o proiezione mentale, schizofrenia o non so cos'altro. L'importante era che la sua reazione, comunque, fu dolce.
"Cara nonna, non sono felice".
Mi levò il cuore. Cominciai a piangere e ad uscire dagli occhi di quella vecchietta.
"Amore" le dissi "cosa potrebbe renderti felice?"
"Voglio una vita senza violenza, per il momento" sussurrava "mi basterebbe questo".
Me ne andai, ancora una volta, e non tornai più.

Nel corso di quegli anni mi obbligai a non osservarla e a non sapere più nulla di lei.
Dato che non potevo salvarla, aiutarla, e visto che la tentazione di intromettermi per cambiare il corso degli eventi era forte, mi costrinsi a non occuparmi più di lei e di lasciarla al suo destino.

Era un martedì, ma non è importante.
Venne a me Gesù Cristo.
- Avverto la tua sofferenza - mi disse.
"Wow" pensai.
- Sì, se fossi un umano credo che sarei uno di quelli a cui prende lo spleen.
Gesù non sapeva cos'era lo spleen perché nessun poeta maledetto credeva in Gesù e nessuno gli aveva mai spiegato quello stato d'animo. Allora mi accorsi che consultò la sua Wikiemopedia GV (God's Version) e lo vidi tirare un sospiro di sollievo. Così attaccò, come se lo spleen fosse cosa che conosceva a menadito:
- Vedi Pluto - mi disse (odiavo quando mi chiamavano Pluto o Plutone, ma lo lasciai continuare) - in verità ti dico, io credo che dovresti tornare sulla Terra. Non è accettabile lasciare quell'anima in quel modo dopo averla indirettamente sedotta. L'hai voluta con te, l'hai guidata, l'hai cresciuta, è come una figlia.
Mi fece tenerezza quando pensò che Miriabel, per me, fosse come una figlia. Pensava da terrestre, essendolo stato. Non capendo che io amavo l'essenza di quella donna, anche nel momento in cui dimorava nel corpo di una bimba. Non capiva che volevo unirmi a lei, unire la mia anima alla sua.
- Se a te prende questo stato di tristezza, questa sensazione melanconica - continuò - significa che non sei felice e a questo, essendo un Dio, devi porre rimedio.
- Perché un Dio non può essere triste? Un Dio forse non può amare nel modo in cui amano gli esseri umani? A te non è mai capitato?
- In verità, in verità ti dico, sì. In quel misero mio tentativo di aiutare l'uomo nel suo cammino, nel periodo in cui calpestai il suolo, mi capitò di amare una donna. O meglio, amai la sua anima.
- Ah sì? E racconta, che successe?
- Beh, fu in occasione delle nozze di Cana, hai presente?
- E come no! Bacco me lo racconta sempre e ogni volta ride come un pazzo.
- Ancora non avevo compiuto alcun miracolo evidente. Avevo fatto qualche piccolo esperimento, da solo. Ma questo non viene narrato nelle sacre scritture. Avevo provato a riportare in vita alcuni insetti, avevo fatto un po' di prove di moltiplicazione di alcuni animali, ma niente di che. E quel giorno a Cana era pieno zeppo di ubriaconi e quel povero disgraziato dello sposo era rimasto senza vino. Se l'erano scolato tutto. Così mia madre venne a me nel momento più delicato, momento in cui mi prodigavo nell'osservazione di una stupenda vergine di dodici anni, e mi chiese di fare un miracolo, lì, davanti a tutti. Mi disse "Gesù, io ho voglia di bere ancora un po' ma il vino se lo son bevuto tutto i parenti della sposa"! Le dissi "Madre, berremo acqua. Amen." Ma lei non fu tanto d'accordo. In realtà credo fosse stato mio padre adottivo a spingere mia madre affinché mi obbligasse a fare il miracolo. A lui piaceva molto bere.
- E così? Ti toccò lasciare da parte l'osservazione della verginella per accontentare tua madre?
- Sì.
- E poi, come finì?
- Beh lo sai. Questa è la storia di come conobbi  Rachele.
Rachele era la sua compagna per l'eternità. Quasi tutti gli Dei avevano un compagno per l'eternità. Anche gli umani, nell'Aldilà, ne avevano uno. Tutte le anime, insomma, avevano un'anima gemella. Se avevano avuto la fortuna di incontrarla in una qualche dimensione, nell'Aldilà avevano la possibilità di condividere un'unione di anime eterna.
Gesù continuò: - E se fosse lei la tua anima eterna, ci hai mai pensato?
- Certo, ci ho pensato eccome. Ma dopo anni di rapporti di ogni genere, distinguere l'anima gemella è difficilissimo. Troppe volte ho amato e mi sono illuso di aver incontrato l'anima eterna, la mia dolce metà. E altrettante volte ho dovuto ricredermi.
Gesù se ne andò. Il suo compito era finito.
Era venuto a dirmi che Miriabel aveva bisogno di me e che, a suo modestissimo e divinissimo parere, c'era la possibilità che Miriabel fosse l'anima che ancora non avevo incontrato.

Ritornai sulla Terra il giorno del suo ventesimo anno di vita.
La trovai seduta, immobile, dietro il bancone di un bar.
Atene, per come si presentava, sembrava rinata ma di occuparmi del motivo, in quel momento, non mi importava.  Guardai lei, sembrava pensierosa. Era un orario strano, poco affollato. In quel locale resisteva solo, sotto il sole cocente, qualche mosca indaffarata a ripulire i tavoli.
Lei, senza il sollievo di un filo d'aria, era visibilmente massacrata dal caldo torrido. Inumidita e sudata.
Indossava una canotta aderente, in cotone, che le fasciava i seni. Un pendente le decorava il decolleté  in modo grottesco: una piramide con un occhio sulla cima.
Corsi, dopo anni, ancora una volta, sulla sua pelle, così soffice. La mia brezza le portò sollievo e per un istante sembrò uscire da quel suo stato di trans che, forse, pensavo, non le faceva soffrire il caldo. O che, comunque, le alleviava le pene.
Uscii sotto forma di brezza e rientrai da umano, nella mia vera forma. Non so perché lo feci.
- Buongiorno signorina.
Sobbalzò. Scrollò testa e groppone come un cane bagnato.
- Buongiorno a lei, cosa posso fare per lei?
- Gradirei un bicchiere d'acqua.
Gentilmente mi porse un po' d'acqua alla spina presa da un bariletto che recava sopra la scritta Coca Cola.
Bevvi la mia acqua senza poterne sentire il sapore. Senza provare quella sensazione dissetante e rinfrescante. Ma va detto che non avevo caldo e dunque questo non mi pesò affatto.
Cercavo un qualunque appiglio per poterle dire qualcosa, chiedere informazioni, parlarle. Volevo capire come stava, com'era la sua situazione. Sì mi sarebbe bastato rimanere con lei in una qualche forma ma volevo saperlo in quel momento.
La guardavo ed era bellissima, nonostante fosse perduta nel suo mondo.
- Signorina, saprebbe indicarmi una locanda, un posto dove riposare?
Di nuovo tornò fuori dal suo stato di dormiveglia.
- Al piano di sopra, gentile signore. Può suonare al bed&breakfast qui sopra, è pulito e non troppo costoso. E' di proprietà del mio capo.
- La ringrazio. Signorina..
- Miriabel.
Lo disse con tutta la grazia dell'universo conosciuto e non.
Feci per lasciare il locale e dirigermi all'esterno, verso la scala che portava al piano di sopra.
- Signore..
Mi chiamò. Pensai volesse chiedere anch'essa il mio nome.
- Ha dimenticato di pagare.
Un po' in imbarazzo, ricordandomi che sulla Terra tutto ha un prezzo, anche un bacio, in modo più o meno indiretto, presi i soldi dalla tasca.
- Quanto le devo per l'acqua?
- Sono 5 euro.
Pagai e me ne andai.
Appena fuori mutai nuovamente forma e tornai ad essere la coccinella. Mi posai su di lei senza che se ne accorgesse. Credo che, anche fossi stato un'aquila di cinque chili, comunque non se ne sarebbe accorta.
Rimasi così, sulla sua spalla, per circa un'ora e lei non si mosse. Sentivo la sua angoscia, le sue paure. La sua sofferenza. Mi facevo carico delle sue pene sperando che potessero abbandonarla ma mi rendevo conto che il suo male era eterno.
Entrò poi un uomo, sembrava sporco, dentro e fuori. Chiuse tutto, sprangò la porta e chiuse le serrande. Prese Miriabel e, lasciandola così com'era nel suo stato di shock, la violentò per circa mezz'ora. Finito, le diede una spinta e la fece ruzzolare dietro il bancone.
Cadendo lei picchiò la testa e rimase ferita.
Divenni l'acqua sul suo fazzoletto per lavarle il sangue di dosso e il ghiaccio per alleviare il dolore.
Quell'uomo che, senza giudizio, chiamavo ancora uomo, uscì dal locale e non tornò più.
Quella sera stessa parlai a mio fratello Ade e gli chiesi un favore personale.

- Ade, fratello mio!
- Zeus, qual mortal vento ti spinge fin qua giù?
- Fratello mio, da troppo tempo non passavo a salutare te e la mia adorata figliuola, nonché tua moglie, Persefone. Come state?
- C'è male, grazie. E tu?
- Io avrei bisogno di un piccolissimo favore. Ho un conoscente che credo dovrebbe smettere di militare nella Terra e trovarsi un posticino qui, in un freddo ed umido angolino del tuo orribile paradiso sotterraneo. Cosa ne pensi?
- Perché mai, fratello? Che ha fatto quest'uomo per renderlo così tanto degno della mia dimora?
- Stupra quotidianamente il corpo abitato dalla mia anima gemella e la fa soffrire. Il suo animo perde d'intensità e di vibrazioni positive. Quest'uomo deve smettere di godere della vita.
- Godere. Mio Zeus, pensi davvero che gli uomini sulla Terra, allo stato attuale, possano davvero dire di godere qualcosa della loro miserabile vita? - Ad ogni modo uno stupratore di ragazzine, nella mia squadra di hockey, mi manca. Lascia i dati di costui alla mia segretaria alla portineria ed entro domani andrò a prendermelo.
- Tu in persona? Ade Dio degli Inferi in persona si scomoderà? E i tuoi adepti?
- Fratello Zeus, questo è un favore personale che io faccio a te. Tu mi cedesti la mano di tua figlia ed io ora, se potrò rendermi utile per liberare la tua donna da un simile esemplare, lo farò in piena presenza, per evitare qualsiasi sorta di errore.
Salutai mia figlia e mio fratello, suo marito. Due anime nere, unite dalla morte e dalla disperazione.

Scesi ancora su Atene e, dall'alto, decisi di osservare. Mutato in aquila, sorvolai le vie della città, accorgendomi amaramente che l'estetica di questa era stata completamente riabilitata. Le bianche casette, le vie tutte. Men che i templi. Un'Atene senza un dio, di qualunque forma o credenza. Una città come tante, nel mondo, ormai.
Scesi tra gli abitanti per capire l'affermazione di mio fratello. Questo mi avrebbe in ogni caso permesso di capire come meglio agire anche nei confronti di Miriabel dato che, se non si fosse ancora capito, avevo deciso che non l'avrei più lasciata sola. Avevo appena deciso che, a prescindere dal resto del mondo ed in barba anche a qualche piccola regola sul libero arbitrio, avrei aiutato la mia anima gemella nella sua camminata sulla Terra e che non l'avrei mai più abbandonata.
Trovai un popolo felice e drogato, sereno e sedato. Corpi tenuti costantemente sotto controllo da microchip che dicevano loro quando e come dovevano assumere dosi di farmaci, in che quantità, sempre in base al principio che senza di questi non sarebbero sopravvissuti alle radiazioni e al cibo contaminato. Però tutto splendeva e, dal di fuori, una apparente felicità e quieta vita si manifestava per ogni essere vivente.
Giravo per il mercato tra le folle ordinate e silenziose. Nessuno aveva troppa voglia di parlare con altri esemplari della stessa specie. Preferivano rimanere in costante dialogo interiore col proprio ego che diceva costantemente loro come essere e come rapportarsi con gli altri.
Appresi poi che non tutti gli umani si alimentavano a farmaci e che nessuno di questi era stato costretto con la forza ad impiantarsi il microchip. Diventai un bimbo e mi avvicinai ad un vecchio clochard ai bordi di un vicolo di un'Atene artificiale ricca di comfort e di brave persone che la popolavano. Si chiamava Damian, glielo lessi sulla fronte. Portava un tatoo ben scritto, nero su pelle, recante quello che, con ogni probabilità, era il suo nome.
- Damian..
Sollevò con sforzo una testa che sembrò pesare decine di chili. Mi guardò, gli mancava un occhio e sulla pelle che ricopriva l'orbita recava un altro tatoo che disegnava un fiore.
- Cosa vuoi ragazzo?
- Vorrei mi raccontassi una storia.
Lui mi guardò, assottigliando e sbattendo la sola palpebra che aveva, stanca ed incrostata.
- E tu cosa mi dai? - me l'aspettavo quella domanda.
- Niente. - Gli dissi sfacciatamente.
- Ok, chiedimi quello che vuoi.
Si mise comodo e attese con aria curiosa, solleticandosi la barba, grigia e sudicia.
Lo pregai di spiegarmi cos'era accaduto negli ultimi anni e di spiegarmi la rinascita di quella città, come di tutte le altre sulla faccia della terra. Lui si mise a ridere e mi invitò ad accomodarmi sul suo angolino privato. Un metro quadrato di marciapiede, coattamente abitato.
- Sarò breve perché ho molto da fare. Qui in Atene, come in ogni altra città, dopo le esplosioni nucleari e chimiche, molte persone impazzirono e molte altre svilupparono malattie e patologie di vario genere. Tutte o quasi si manifestavano con eruzioni cutanee, piaghe et similia. Inizialmente il popolo fu abbandonato e lasciato al loro destino. Vidi ogni genere di barbarie, violenze inaudite. Crimini e stupri di massa. Cannibalismo e chi più ne ha più ne metta.
- E poi cosa accadde?
- La propaganda salvò gli esseri umani. Cominciarono a circolare tramite giornali gratuitamente distribuiti titoli come "In arrivo cibo e acqua per tutti" oppure "Abbiamo le cure per tutti i vostri mali" e avanti così fino a che, in ogni città del mondo, non arrivarono delle imprese di ricostruzione. Queste squadre, in qualche anno, rimisero a nuovo la città, qui in Atene così come in tutte le capitali del pianeta.
- Solo nelle capitali?
- Sì ragazzo, solo nelle capitali. Solo alle capitali era concesso cibo ed acqua attraverso piccoli stratagemmi che ora andrò ad illustrarti, mentre le terre che le circondavano vennero lasciate al loro destino in modo da ridurre la popolazione e spingerla ad accentrarsi in zone ristrette e dunque facilmente controllabili.
- Spiegami in quale modo, amico.
- Semplice, facendo leva sui bisogni primari. Cibo, acqua e salute. Iniziarono col portare acqua e cibo stipati in enormi container guardati a vista da scorte armate. Poi, nelle maggiori piazze, iniziarono a dire che, per ricevere razioni di cibo e cure mediche, bisognava registrarsi al una specie di anagrafe. Dentro al principale edificio della città, la Casa di Vetro, che sorge sulle rovine del Partenone, si iniziò a schedare tutto il popolo, impiantando nel collo di questi disperati, dei microchip di ultima generazione in grado di fornire ogni tipo di informazione sullo stato fisico e psichico del corpo che li ospitava. Cominciarono a dire che questo microchip avrebbe piano piano curato le loro malattie attraverso la somministrazione quotidiana di una pasticca che, in relazione al microchip, era in grado di guarire le piaghe e tutti i problemi che li affliggevano. Le persone cominciarono a guarire e, sempre tramite questo dispositivo, diventarono dipendenti da queste pasticche. Tutti apparivano felici, avevano cibo e acqua, sempre a razioni, tenute sotto controllo proprio da questi chip.
- Ed è così che tutti vivono, adesso? Anche tu?
- No ragazzo, no. Alcuni, molti, ma non tutti. Nessuno viene costretto a mettere il chip ed assumere le medicine ma sempre più persone lo fanno, alcuni vengono dalle campagne. Arrivano in stati pietosi e vengono rimessi a nuovo e, sotto il loro esempio, sotto questa salute apparente, molti sono convinti che questa sia la sola via per condurre una vita sana e nuova. Ma qui, nessuno più sorride. Nessuno si arrabbia. Nessuno si pone più domande e nessuno risponde. Nessuno fa più l'amore. Lo stimolo sessuale è regolato da una pasticca. Diversamente ogni uomo è impotente. Ma questo a loro non importa perché a loro basta vivere di salute e serenità apparente.
Fece una piccola pausa. Sorrideva, fiero di non essersi lasciato drogare.
- Hai bisogno di qualche altra informazione giovanotto?
- Sì, solo un'ultima domanda. Cos'hai da fare vecchio?
- Devo vivere.
Mutai forma lì, davanti a lui. Diventai un topolino e mi infilai in una grata sotto ai suoi piedi.

Appena appresa la morte del suo aguzzino, Miriabel uscì miracolosamente dal suo stato di shock e, vedendomi l'indomani sotto forma di coccinella sorrise.
Sorrise a lungo e alla fine mi disse "Bentornato".

Non era poi difficile intuire che le guarigioni di massa non erano affatto regolate dalle pasticche stesse che assumevano, alle quali spettavano altri scopi di controllo. Bastava uscire dalla città per incontrare intere famiglie sane e libere dal controllo. Queste persone vivevano però in piccole comunità autonome e senza l’appoggio di strutture in grado di fornire loro acqua diretta ed elettricità.
Quel giorno lasciai Miriabel al bar, ancora gestito dalla moglie del numero 5 della squadra di hockey di mio fratello. Andai per le campagne e mi finsi un viandante proveniente dalla città e deciso a stabilirmi in campagna. Mi presentai ad una famiglia molto cordiale e chiesi maggiori informazioni. La moglie, una signora anziana d’età ma esteticamente in evidente forma fisica, mi portò a passeggiare tra gli alberi bruciati dal sole. Ulivi in ogni dove e un’aria di pulito.
- Qui da noi - mi spiegò - a molti capitò di ammalarsi. La portarono i bambini dalla scuola, l’infezione. I sintomi erano quasi immediati. La pelle iniziava a prudere e si aprivano piaghe sanguinolente nel giorno di alcune ore. Tutte le persone erano nel panico, soprattutto i piccoli.
- Ma tutti si ammalarono?
- No, no! – mi disse, quasi stupita da quella curiosa domanda. – No, quasi tutti i vecchi non riscontrarono alcuna patologia.
Trattenni quella risposta per eventuali considerazioni future.
- Ah! E anche gli animali. – aggiunse.
- Prego?
- Gli animali. Nessun animale si ammalò.

Lo stesso giorno tornai alla locanda con le mie reali sembianze umane e divine. Prima però passai al bar per vedere come stesse la mia piccola. Entrai senza troppo curarmi dei presenti ed andai al bancone. Miriabel sembrava serena e ricoperta di nuova luce. Mi vide, voltandosi con delle bibite in mano. Si voltò con la grazia di una ballerina sulle punte. La testa di sbieco.
- Buongiorno! – e sorrise.
Così, lì per lì, non ce la feci nemmeno a contraccambiare il sorriso e a dire una sola maledetta parola. Ancheggiò verso il tavolo, laddove se ne stavano seduti due distintissimi ed illustrissimi signori in completo gessato e cravatta rossa. Subito così mi sembrarono un po’ esageratamente ben vestiti per poter frequentare quel bar che, tutto sommato, non era tra i migliori della città. Così, pur non togliendo l’attenzione alla mia piccolina, iniziai ad ascoltare i loro discorsi:
“Sì perchè vedi, la questione non è esattamente quella di trovare un modo per liberarsi dei poveri. Il punto è che andrebbero sfruttati e non uccisi, capisci? – Sì certo, hai ragione. Andrebbero messi a produrre. Ma poi cosa? Ci pensavo anche l’altra sera..”
- Buongiorno Miriabel..
“Sì il fatto è che..”
- Buongiorno a lei, Signor..?
“..non puoi fidarti di loro. Sono bestie selvatiche.”
- Pluto. – Chissà come mi venne in mente di dire Pluto.
“Sul giornale, lo vedi cosa scrivono ogni giorno? Sono come cani randagi, aggrediscono le persone. Cercano di avvicinarsi alla città per rubare. Tra di loro, in campagna, si accoppiano con i loro figli e con gli animali selvatici. – Sì, ho letto anch’io di quell’esemplare ibrido che le pattuglie hanno catturato, alle porte della città. – E’ orribile. Hanno pubblicato le foto. Dicono che ci siano moltissimi selvaggi che figliano volutamente degli ibridi, facendo accoppiare uomini con orsi, lupi o cani di grossa taglia. Lo scopo è chiaramente quello di creare un esercito per attaccare la città. – Lo so, infatti credo che il Governo faccia bene a volerci tutelare, come ha annunciato. A breve uscirà un editto sulle nuove misure di sicurezza”.
Ascoltavo quegli uomini e guardavo Miriabel che, con espressione stupita, mi osservava e mi contava le rughe. “Pluto” ripeteva “che nome originale”.
Bevvi la mia acqua in santa pace, sforzandomi di non ascoltare più quei due individui. Mi concentrai sulla mia bella e sulle sue mani, esili e rovinate da chissà quali fatiche. Notai poi che non aveva più quel pendaglio al collo e rimasi sollevato.
- Ha dormito bene signor Pluto?
- Discretamente, grazie Miriabel.
La guardavo e non potevo evitare di pensare a come l’avrei portata via da quel posto e di come l’avrei fatta sorridere, nuovamente e continuativamente.
- Miriabel, questa sera lei cenerà con noi alla sala da pranzo della locanda?
- Immagino di sì, ci sarà anche lei?
- Solo se mi degnerà della sua presenza.
Mi sorrise, arrossendo, e fu la più bella notizia appresa negli ultimi anni.

La locanda dove alloggiavo era un bed&breakfast gestito dalla moglie del numero 5. Seppi, parlando con lei, che suo marito era stato uno di quegli individui colpiti dalle piaghe e curato grazie al chip e alle pasticche. Pensai fosse alquanto strano che il marito fosse uno di loro perchè era ormai di dominio pubblico quel dettaglio riguardante le pasticche di viagra, risaputamente necessarie ai “drogati” per riuscire ad avere un’erezione. Dato che l’avevo, mio malgrado, visto prodigarsi in atti sessuali, mi domandai come fosse possibile. Ma non feci nemmeno in tempo a pormi quel quesito che subito trovò risposta.
- Mio marito era una brava persona, sà... un ex poliziotto. Ha fatto tanto per questa città, anche quando venne attaccata dalla Cina, anni or sono. Lei se lo ricorderà.

Il pomeriggio, in attesa della cena, lo trascorsi in riva al mare. Osservavo pesciolini felici, sole e molluschi. Faceva caldo ma, incredibilmente, notavo che nessuno faceva il bagno. Me ne stavo con la testa chinata sull’acqua, riflettendo sul fatto che gli uomini non potevano credere che entrare in acqua fosse pericoloso, dato che i pesciolini che vi nuotavano dentro erano vivi e sguazzavano beatamente. Pensai così di provare ad intervistare nuovamente qualcun altro. Vidi però due piedi, puliti, poggianti sul pelo dell’acqua increspata dalle onde.
Senza nemmeno alzare lo sguardo, lo salutai:
- Ciao Gesù.
- Ciao Pluto.
- Zeus!
- Ciao Zeus.
- Non ti sei ancora stancato di questo giochino?
Se la rideva, Lui, titillandosi quel suo baffo che, in quel periodo, gli piaceva portare “alla Salvador Dalì”.
- Zeus, bravo. Vedo che ti stai dando da fare per quella ragazza. Però lo sai cosa sono venuto a dirti, vero?
- Certamente ma non devi preoccuparti. La segreteria degli Inferi è stata così gentile da dirmi che la morte di quell’uomo era comunque programmata tra qualche mese.
- Non conta, questo non significa nulla! Non puoi metter mano sulla vita degli uomini. Per nessuna ragione!
Gesù, col suo baffo simpatico, da arrabbiato non faceva effetto. Provava ad alzare la voce ma non mi creava alcun timore. Glielo dissi e lui sparì, ancora una volta, per tornare chissà quando, poi.

Quella stessa sera a cena, tutti in quella piccola e così cordiale sala da pranzo, ce ne stavamo in un silenzio di tomba, in ricordo del giocatore di hockey da poco ceduto a miglior squadra. Sua moglie aveva lo sguardo sereno e sollevato. Miriabel giocava col cibo che aveva nel piatto, come una bambina, forse imbarazzata dalla mia presenza. Non alzava mai lo sguardo e continuava ad infilzare dei piccoli spiedini di alghe. Li sfilettava, li toglieva dal loro bastoncino di legno che li teneva ben legati tra loro. Poi con la forchetta li tartassava, sbattendo rumorosamente l'acciaio sulle ceramiche della moglie del numero 5. Con noi, allo stesso tavolo, sedeva una coppia di ricercatori tedeschi che non parlava la nostra lingua.
Noi, si era convenuto, non avremmo parlato la loro e così si sarebbe mantenuto quella sorta di riservatezza che tutti ambivano e sentivano come doverosa, soprattutto in una simile situazione.
Sorrisi comunque vistosamente quando parlai alla mia piccolina:
- Non ti va' la cena, Miriabel?
Arrossì, senza alzare lo sguardo. Si era messa tutta carina quella sera. In ghingheri per un vecchio come me.
Le mie sembianze terrestri assomigliavano a quelle di un uomo sulla quarantina. Barba, capelli brizzolati. Fisico ben piazzato, muscolatura evidente ma non imponente. Quello che si dice "un bell'uomo".
La lasciai finire in santa pace la sua cena e, una volta sparecchiato, la seguii sulla veranda, in cerca di un po' d'arietta tiepida a rinfrescare dal torrido cielo, ormai andato.
- Stai meglio adesso?
- Prego?
Faceva finta di non capire. Aveva ancora troppa paura.
- Stai meglio ora che quell'uomo malato non c'è più?
Con molta discrezione, annuì. Poi abbassò nuovamente lo sguardo per non rialzarlo più per diversi attimi. Quando prese a fissarmi, mi decisi a parlare con lei in toni intelligenti:
- Hai mai pensato di trasferirti nelle campagne?
- Ci penso ogni secondo!
Mi stupii di quella risposta fredda ed istantanea e così decisi di non avere remore alcuna.
- Non temi le malattie e i selvaggi? Non temi di morire di fame o aggressioni?
- Signor Pluto, io credo che le persone che sono là fuori siano identiche a noi e anzi, credo che forse riescano a vivere anche meglio di me e lei messi assieme.
- Di me e te assieme no, è impossibile! - Fu un pensiero automatico pronunciato ad alta voce.
- Come dice signore?
- No nulla carissima, nulla. Le auguro la buonanotte.
Voltai i tacchi e me ne andai.
Appena nella mia stanza, mutai in coccinella e volai nella sua camera.
Non dovetti attendere molto per vederla arrivare. Si spogliò, chiudendo gli occhi ed accarezzandosi. Gettò la testa all'indietro e sussurrò qualcosa che non riuscii a capire. Lo pronunciò quasi come una preghiera, cadendo in ginocchio, ed iniziò a piangere.
Stavo per trasformarmi lì, davanti a lei. Ma qualcosa dentro di me riuscì a placare la mia fretta.
La lasciai lì, di nuovo, sul pavimento. Sola, ancora una volta.

- Ciao papà, posso disturbarti?
- No, mi dispiace Zeus, non ho tempo! Sto cercando di vincere senza imbrogliare all'ultimo livello di Bubble ma va troppo veloce!
- Crono, per favore, è una cosa molto importante. Ho bisogno di un file.
- Cosa ti serve?
- E' una cosa veloce, mi serve la registrazione di una frase detta da una persona. Non sono riuscito a sentirla poco fa.
- Va' da tua madre in segreteria, chiedi a lei!
Crono per me fu un padre poco presente. Scampato per miracolo alla sua voragine, scaturita dal desiderio di distruggermi per evitare che lo spodestassi, crebbi con le ninfe in una grotta, mentre lasciai a lui lo sgradito piacere di divorare una pietra al mio posto. Fondamentalmente credo sia stata proprio la mia infanzia a contatto con quelle semi-dee a farmi crescere con vistose manie compulsive verso il sesso.
Da cosa pensate derivi il termine "ninfomane"?

Il momento in cui ascoltai quel file, al sicuro sulla mia nuvoletta nera, e rividi lei inginocchiarsi a terra e pregare verso il cielo, fu commovente e sconvolgente. La rividi ripetere, al rallentatore, le stesse scene di pochi attimi prima. I capelli scivolare sul di lei collo e le mani tendersi di desiderio.
"Portami via! Portami con te!" Lo sussurrò appena ma l'eccezionale qualità delle mie Bose mi permise di sentire perfettamente anche i suoi respiri.
Caddi dalle nuvole e rovinai nella sua cameretta in forma umana.
Lei lì, soavemente dormiva.
Cercavo un modo per potermi approcciare a lei, per dirle che ero lì ed ero andato a prenderla. A pochi centimetri dal suo corpo feci per toccarla ma, in un momento di lucidità, riuscii a decidere di andarle in sogno.
La trovai a dondolare su un'altalena, immersa nel verde di un giardino quasi fatato. Andai da lei nella mia vera forma, vestito di bianco e con sguardo paterno. Lei si alzò, mi corse incontro a braccia aperte e mi abbracciò con tutta la forza che aveva in corpo. Fu un abbraccio che durò a lungo, sincero che quasi mi venne da piangere. Mi inginocchiai davanti a lei, le baciai le mani e le dissi che l'avrei portata via con me.
In quel momento lei uscì di colpo dal sonno e mi trovò lì, davanti a lei, seduto al suo fianco, pronto a ricevere tutto quello che lei avrebbe voluto donarmi.
Mi fissò dritta negli occhi con una tale passione che quasi vidi il fuoco possedere la sua iride.
"Non ho paura!" mi disse.
- Miriabel, di qui si va per una selva oscura..
- Non ho paura!
Mutai e diventai il suo cane Zeus, lì davanti a lei.
Balzò indietro e rimase attonita, accennando un sorriso nervoso. Spaurita ma felice.
Diventai anche coccinella e di nuovo ripresi le mie sembianze.
Lei rimase immobile, solo il suo sguardo, perduto chissà dove. Migliaia di pensieri ad accavallarsi cercando forse di trovare una formula logica atta a spiegare quanto stava vivendo. Ma non era possibile, affatto.
"Dimmi cosa devo fare" mi disse, supplicandomi con gli occhi, spaventata.
Così, senza nemmeno chiederle il permesso, mutai anche la sua forma. Due piccole api, graziose agli occhi di nessuno. Due api per l'occasione nottambule. Api in fuga.
Volammo fuori dalla sua finestra e, diretti a nord, uscimmo dalla città, verso i boschi.
Via
lontano.
Poco fuori città, appena lontano dal confine, non ce la feci e mi fermai. Dovevo rivederla. Lei, la sua espressione libera. Dovevo capire il suo stato d'animo.
In una piccola radura la trasformai, lì, vicino ad un cespuglio di bacche colorate appena da qualche raggio di luna.
La guardai a lungo senza proferire parola alcuna. I suoi occhi brillavano di gioia e intensità. Di vita e di amore.
Mi sorrise, piano. Poco, per non farmi troppo male.
- Merito questo? - mi chiese timidamente.
Avrei voluto abbracciarla. Stringerla fino a soffocarla per poi portar via la sua anima nel mio regno, solo io e lei.
- Nessuno in nessuna parte dell'universo riceve quel che merita.
Mi guardò, inclinando la testa come un cagnolino intento a capire. Gli occhi vispi e attenti.
- Perché, Miriabel, meritare o meno è un concetto inesistente poiché si basa sempre e comunque su delle convenzioni sociali. Tu sei cresciuta in una società dove, ai fini della rinascita, il concetto di merito e demerito è stato fondamentale. E sai perché? - Non parlava e non sembrava aver idea di farlo. Rimaneva estasiata e rapita. - Perché se tu sei meritevole o meno di qualcosa è sempre e comunque una realtà che decide qualcuno per te, in base alla sua vita e alle sue esperienze. Questo alla tua mente conscia fa sembrare che sia tu a determinare il merito o il demerito, in base a quanto produci, fai o fai, mentre il tuo inconscio è perfettamente conscio della dinamica totalmente soggettiva che condurrà il giudice a decretare parere positivo o negativo.
Annuì con la sua testolina graziosa ma non sono certo che fosse in uno stato ottimale per comprendere quel ragionamento.
Compresi che non aveva per nulla seguito il mio ragionamento quando mi guardò, con innocenza, e mi chiese "Ma adesso che cosa facciamo?"
Mi avvicinai a lei con fare lieve e rassicurante. La vedevo smarrita e mi causava un dolore dentro quella particolare sensazione. La sfiorai, piano, col dorso della mano. Le accarezzai quel profilo teso e sofferente che troppe volte aveva ricevuto offese e mai come in quell'istante un'anima poteva apprezzare ed amare. Scendendo piano lungo le sue guance, a ricalcare solchi di lacrime che troppe volte aveva dovuto versare, voltai il palmo verso la sua pelle e quasi urlai dalla rabbia di non poterne percepire la morbidezza. Con dolcezza scivolai le dita dietro la sua nuca e le infilai tra i suoi capelli con un leggero massaggio alla nuca. Lei chiuse gli occhi e lasciò andare ogni volontà, tutti i pensieri, e vidi il suo volto distendersi. Le forze lasciarsi cadere, morte, sulle mie misere mani.
E fu notte.
La osservai incessantemente ogni istante, ogni respiro.
E fu giorno.

Al suo risveglio le feci assaggiare i frutti del peccato. Li mangiò, avidamente. Quasi a rincuorarsi nello scoprire che il peccato poteva essere dolce ma naturale allo stesso tempo.

- Come ti devo chiamare? Chi sei?
- Sei certa di volerlo sapere?
- Te l'ho chiesto, dunque sì!
Era decisa la ragazza. L'amavo anche per questo.
- Sono Zeus..
- ..il padre degli dei..
Mi aspettavo scoppiasse a ridere invece rimase molto seria. Sembrava guardarmi come fossi, quasi, un nemico o chissà quale entità malefica capace di imbrogliarla.
- A cosa pensi piccola?
- Penso che la tua fama di donnaiolo mi lascia alquanto attonita. E poi mi chiedo.. perché io? Perché adesso, perché qui? ..Mi chiedo.. cosa vuoi farmi?
Mi lasciò talmente un male dentro il suo cambio di atteggiamento che non seppi trovare risposta. Non pronunciai difesa alcuna e la lasciai credere di essere con ogni probabilità un malintenzionato, deciso a stuprarla o chissà che.
Non fu male quel momento di stasi. Lei mi diede le spalle e si inginocchiò, vicino all'albero che per tutta la notte l'aveva protetta. Sembrava affranta e disperata.
Non so bene perché non corsi da lei, perché non andai a stringerla e a rassicurarla. Davvero, non ne ho idea.
Davanti a me apparve, in quegli attimi, una fatina. Una specie di farfallina graziosa e
con i baffi alla Dalì.
Mai, in tutta l'eternità, vidi una figura così aberrante!
- Che ci fai conciato in quel modo?
- Nulla di speciale, sono appena venuto via da un party di trans a tema.
- Dovrei chiederti quale tema?
Gesù era felice che mi interessassi a lui. Si divertiva un mondo. Forse credeva che fossi un suo amico.
- Mah no. Cioè se vuoi.. beh, te lo dico. Era un party di folletti, fate e maghi.
- E tu ci sei andato vestito da fatina?
- Ma io non ci volevo andare! Solo che cantava Freddie e non me lo potevo perdere!
- Sì ma perché vestito da fatina, mi domando.
- Non c'è un perché. A volte si fa quel che ci si sente di fare. E chiedersi sempre il perché presuppone che ci siano dei procedimenti che si attivano per trovare una risposta, snaturando comunque la reale essenza dell'istinto e della sensazione che ha fatto nascere quello che sentiamo. Questi procedimenti sono dunque sempre rivolti alla ricerca con l'utilizzo del sistema associativo. E questo, pescando dal passato, invece di indurre all'evoluzione, ci inchioda perché ci rimanda a concetti già vissuti. Cerca un'associazione su cose passate e già conosciute invece che spingere a riflessioni nuove e diverse.
Gesù blaterava ma non lo stavo a sentire.
Aveva sempre queste manie di profetizzare su tutto.
Guardavo a Miriabel e al suo esile corpicino ancora dolente, forse, per la trasformazione. Lei non lo diceva perché era forte e non voleva dare alcun cenno di cedimento ma le trasformazioni, per gli umani, erano sempre travagliate. Lasciavano un forte dolore alle ossa e alla muscolatura, come durante un'influenza.
- Hai finito di svolazzarmi davanti al naso?
- Ma mi stai ascoltando?
- No! Vattene dai, lasciami con lei. Ha bisogno di me.
- No, ma sei matto? Cosa pensi che sia venuto qui solo per farti vedere il mio costume di carnevale? Mi ha mandato un sms Dio Padre dicendomi di correre da te. Ma lo sai cosa stai facendo?
Lo sapevo. O forse no.
- Nessuno mi impedirà di aiutarla. Ora lasciaci soli.
Gesù si allontanò. Svolazzava in modo disordinato come una falena. Prima di dileguarsi aggiunse "Ti teniamo d'occhio!".

Mi avvicinai a lei, inginocchiata come trafitta da el matador!
- Stai male?
- No. - Il cuore di una pinguina frigida sarebbe certo stato più caldo.
La toccai col pensiero. Poi anche con due dita, appena appoggiate sulla sua spalla nuda.
- Qual è il problema?
- Non ci sono problemi.
- Per favore, non ti chiudere. Parla con me.
- E perché non parli tu con me?
Che domanda. Che donna!
La accontentai perché era la sola cosa che mi avesse mai chiesto e, soprattutto, la sola che avrei potuto darle di me, in quel preciso istante.
La voltai verso di me, forzandola un po'. Faceva resistenza ma sapevo che voleva che la stringessi e la rassicurassi. E così feci. La strinsi al mio petto e rimasi così, deciso a raccontarle di me e di quello che voleva sapere. Feci appena in tempo ad accennare ai miei trascorsi quando, senza un minimo rumore di preavviso, ci piombarono addosso le guardie di confine. Delle guardie di confine che, per l'occasione, avevano sconfinato. Armati fino ai denti, ci ritrovammo circondati senza nemmeno avere il tempo di guardarci negli occhi per capire cosa stesse succedendo.
- Si fermi! Non tocchi la ragazza!
Urlavano come dei pazzi e mi intimavano di non far male alla mia anima. Evidentemente loro non avevano ancora incontrato la loro anima gemella e dunque, pensai, erano giustificati. Non provavo rabbia per loro, neanche di fronte a quella brusca intromissione. Con orrore notai lo sguardo spaventato e diffidente di Miriabel.
- Non faccia male a quella ragazza o saremo costretti ad aprire il fuoco!
Vacillò la Mente della mia bella, credendo a quei folli.

Non volevo far loro del male. Potevo agire coi miei poteri solo su chi credeva in me e in quel che facevo. Ma quelle menti plagiate mai avrei potuto controllarle. Non trovavo apertura e non potevo procedere se non fisicamente ed inesorabilmente contro di loro.
Mi ricordai magicamente ed istantaneamente di quei signori al bar che raccontavano di ibridi animale-uomo, di queste pericolose creature, palesemente inventate e strumentalizzate dalla propaganda.
Mutai in meno di un istante e mi trasportai in mezzo al gruppo più folto.
Sparare contro di me a nulla serviva. Le mie sembianze intimorirono i più che si diedero alla macchia. La mia forma da uomo-lupo era davvero cool! Quei pochi coraggiosi ( o strapagati ) ( o stradrogati ) che rimasero a cercare di farmi fuori, finirono l'indomani per ritrovarsi legati in un campo poco lontano, affidati alle cure degli abitanti di un villaggio che li avrebbe rimessi a nuovo. Disintossicati e riabilitati a nuova vita.

Più tardi, nel pomeriggio, passeggiavo con Miriabel tra i prati fuori Atene.
Non andavamo da nessuna parte. Solo si camminava immersi nella natura.
- Perché non hai fatto loro del male? C'è un motivo?
Mi parlava ferita e quasi come se si vergognasse di me o di lei o del mondo.
- Dovrei forse prendermela con loro per quello che fanno? Dovrei forse odiare il prodotto che la società li ha fatti diventare?
Erano domande retoriche e non rispondeva.
Miriabel era intelligente.
- Ad ogni azione corrisponde una reazione, uguale o contraria. Perché mai dovrei alimentare dell’energia negativa basata su odio e vendetta? Se loro odiano ed esternano queste tipologie di input negativi, devo forse unirmi a loro con la stessa energia ed andare a braccetto verso la morte? O posso, forse, contrapporre dell’energia positiva in modo da annullare e portare a situazione neutra quello che, diversamente, sarebbe stato un disastro?
Era intelligente.
Intelligente.

Si fermò come presa da una sorta di allucinazione. O forse un'illuminazione.
Mi guardò sorridente. Aveva il sole in faccia e teneva gli occhi socchiusi, sottilissimi che appena potevo specchiarmici.
E fu così che mi raccontò il mistero della vita e dell'amore, ma senza aprir bocca.
Riuscì a cogliere la mia essenza in quell'istante presente. A vincere le paure che fino a quel momento l'avevano bloccata, condizionata. Sviata e seviziata.
Non so descrivere la mia sensazione.
Messo ko da una piccola umana che mi stava leggendo i pensieri standosene comodamente distesa sulla mia anima. La vidi stupirsi, piacevolmente.
Quel viaggio durò qualche ora.
Ore di silenzio e continuo scambio emozionale. L'uno con gli occhi nell'altro. 
Sentivo sprigionarsi una miriade di energie infinitamente positive. Uscivano dal mio corpo e dal suo per rientrare in quello dell'altro. Entrambe le nostre divine essenze se ne stavano lì, accomodate. Legate strette, in relazione continua ed infinita col resto dell'Universo.
Capii che non esisteva nessuna dimensione reale se non quella dell'anima. Anche per lei valeva questo. Nella sua maestria, guidata da un non so che, riuscì a cogliere il Tutto.
Vide i giardini infiniti. Vide i miei fiori, accuratamente modellati dalle nubi della mia dimora, e sorrise. Si accorse anche del mio lancia-fulmini elettrico e smise per un attimo di sorridere. Assunse un'espressione beffarda e scoppiò a ridere poi, qualche secondo dopo, per non fermarsi più.

Quando uscimmo da quel rapporto di anime, Helios e i suoi fedelissimi destrieri, stavano per rituffarsi in mare e sparire, fino all'indomani. Immaginai che quella sensazione che stavo provando fosse uguale a quella che gli umani provano la mattina appena svegli, quando roteano il collo per ogni dove e sentono il desiderio di stiracchiarsi.
Lei riprese coscienza della realtà qualche istante dopo di me. Notai che scendevano delle lacrime dal suo volto ma il visino era sereno e ridente.
Incredibilmente sbalordita si accorse lei, prima di me, di quel che era capitato intorno a noi nel tempo in cui io e lei avevamo consapevolmente unito le nostre vite eterne.
Con la bocca aperta e gli occhi sgranati, a fatica riuscì a respirare per la meraviglia.
Centinaia di piante ed animali, intorno a noi. Fiori e frutti erano sbocciati e germogliati. Animali venuti dal bosco se ne stavano acquattati, intimoriti ma piacevolmente attratti, tutto intorno a noi. Ed erano tutti bellissimi e ci guardavano con occhietti vispi. Senza troppo timore, attendevano uno di fianco all'altro. Coniglietti e volpi. Faine e tortore. Come se tutto fosse uno e niente fosse diviso.
Miriabel versava a litri quelle che i terrestri chiamavano "lacrime di gioia". E sorrideva, bagnandomi i piedi. Nudi.
La presi istintivamente tra le mie braccia e la strinsi forte. Sollevai il suo corpicino al cielo e pensai che, infondo, non serviva stroncarle la vita per avere la sua anima. Che la sua vita era bella e che aveva motivo di esistere su quel Pianeta anche solo per salvare una formica dall'essere calpestata incautamente.

sabato 9 luglio 2011

Le case degli spiriti

di Daniela Pasiphae




"Sai, a volte mi capita di trovarmi in situazioni abbastanza pericolose.."
"Tipo?"
"A volte rischio la vita per colpa di una cosa che amo fare.."
"Ma di che parli? Non capisco.."
"Parlo delle case degli spiriti..."
"Ah! Sì, capisco..."
"Tu non hai mai quell'irresistibile voglia di entrarci?"
"A volte ma sai, cerco di evitare. A volte mi ci avvicino ma poi scappo subito".
"Ma perché?"
"Non so mi fa paura. Anch'io all'inizio provavo ad entrare in quei cunicoli ma ogni volta il gigante di guardia cercava in ogni modo di uccidermi"
"Io ci provai il mio secondo giorno di vita, la prima volta.."
"Ah sì? Io no, ci ho provato alla mia seconda settimana"
"Solo una volta?"
"Sì, ero anche incinta..."
"Ah beh, allora hai fatto bene a non avvicinarti troppo"
"Sì infatti. Zuppi dice sempre che tutti dovremmo andare a porgere il nostro canto agli spiriti, prima di morire. Ma a me mancano ancora cinque giorni quindi faccio in tempo!"
"Cinque? Io solo uno, o due forse.."
"Zuppi dice di avere cinquanta giorni. Zuppi sa tutto, in effetti. Ha cantato alla bocca degli spiriti ogni giorno da quando è nato e non è mai morto. Tu ci credi?"
"Non so ma io ci sono già stata sei volte e stasera andrò per la settima volta e potrebbe essere l'ultima"
"Mi dispiace che tu te ne vada così, senza aver mai fatto figli.."
"A me non dispiace. Mi sono divertita. Ho visto il mondo.."
"Io sono in questa stanza dal primo giorno di vita e ho rischiato la vita tantissime volte. Una volta stavo per morire asfissiata"
"Ah sì, dai fumi dei giganti. Li conosco ma a me piacciono.."
"Come ti piacciono?"
"Non so, mi piacciono quei profumi floreali, sono buoni!"
"A me no, non piacciono affatto e nemmeno ai miei piccoli piacciono.. ..Sai, mi dispiace non rivederti"
"Beh, potresti morire prima tu. Tra pochi istanti potresti essere schiacciata!"
"Anche tu!! Soprattutto quando ti avvicini alle case degli spiriti!"
"Haha ma noooo, no impossibile! I giganti non vedono le porte delle case e spesso, cercando di difenderle, riescono a schiacciarsi da soli e a farsi anche molto male! Hai mai provato a fare arrabbiare un gigante?"
"No no, per carità"
"Dovresti, è molto divertente. Vuoi che ti racconti cosa ho fatto ieri sera con Mimì?"
"Dimmi.."
"Ho aspettato che il gigante si stendesse e spegnesse la luce e poi ho incominciato a cantare a squarcia gola davanti alle grotte degli spiriti, volando velocissima!"
"E poi? Che ha fatto il gigante?"
"Beh all'inizio ha iniziato a tirarsi degli schiaffi e dei pugni perché voleva uccidermi!.."
"Ooooh...e poi?"
"Poi si è svegliato e si è alzato in piedi, allora io e Mimì ci siamo preparati e appena ha acceso la luce ci siamo nascoste sotto il letto! Hahahaha"
"Davvero? E se guardava sotto il letto?"
"No, è impossibile. I giganti sono stupidi! Loro pensano che, siccome voliamo, allora stiamo sempre in alto o alla loro altezza. Il trucco è mettersi in basso, o sotto al letto oppure appoggiati a delle cose scure. Meglio se sono nere"
"Capisco.."