domenica 13 febbraio 2011

Venice

di Daniela Pasiphae




Kabibi non era un nome.
Era più una parola inventata ma per un pesce rosso ci stava a meraviglia. L'altro si chiamava Barone ed era un maschio, in teoria. In pratica nessuno aveva ancora capito come si facesse a stabilire il sesso dei pesci rossi, nonostante fossero un animale molto comune.
Aveva letto da qualche parte che i pesci rossi avevano problemi a vivere in bocce sferiche di vetro in quanto, dal di dentro, si distorceva la visione del mondo esterno e avevano riscontrato gravi danni alla vista di alcune di queste bestiole, nonché labirintismo e altre patologie di stress. Inoltre gli avevano detto che questi animaletti avevano bisogno di un motore che ossigenasse l'acqua per stare bene. E anche un filtro per pulirla, possibilmente.
Aveva comprato tutto ed installato il materiale nel suo studio.
Non si poteva propriamente definire studio.
Non c'erano carte.
Era una specie di dimora.
Ma non c'era la cucina.
Una camera e un bagno, quello che serviva.

Scese in fretta, attraversando la strada affannato, precipitandosi nel fast food di fronte alla strada.
"Avete insalate?" chiese al banconiere.
"Sì signore, si accomodi che le porto il menù"
"Non mi voglio accomodare, ragazzino. Ti ho fatto una domanda, mi hai risposto, ora ti dico io cosa voglio! O no?! Sbaglio o è il cliente ad aver sempre ragione? Non è forse vero, moccioso?"
"Oh sì signore, signore, certo!"
"Allora portami un'insalata mista con pomodorini e mais! - e sta ben attento che non ci caschi dentro nemmeno un filo di quelle stramaledette carote." .. con quel colore ridicolo, pensò.
Allora gli si avvicinò una bimba. Se ne gironzolava per il locale dentro una canotta sporca e con solo un costumino addosso.
"A me l'arancione piace!" disse, snobbandolo quasi. Facendo capolino da dietro la spalla ma rimanendo di spalle rispetto a lui.
Milo nemmeno si voltò a vedere da dove provenisse quella voce. Continuava a tenere lo sguardo fisso sul cameriere per controllare che non infilasse carote nella sua insalata.
"Dovrebbe fare attenzione quando attraversa la strada!".
Niente. Pausa, di pochi secondi.
"Anche a me piacciono le mele, quelle gialle. Come a te!". La piccina si ostinava, dal basso del suo metro di statura, a chiacchierare con quell'uomo che di rassicurante non aveva poi nulla. Non bastasse, nemmeno veniva considerata da costui.
"Milo non è un brutto nome, a me piace!"
L'energumeno si voltò. E non vide nessuno. Seccato, sbuffando visibilmente, abbassò gli occhi a terra e scorse  un funghetto di bimba, con una canotta rossa a pois bianchi. E in mutande.
Scalza, questo va precisato.
"Cosa vuoi ragazzina? Non mi seccare, ho da fare!"
La piccola voltò in fretta l'angolo e tornò a sedersi al suo tavolo.
Milo non la vide poiché stavolta era impegnato ad osservare la sua insalata arrivare. Ma lei sedeva sola e davanti a lei solo un bicchiere, mezzo vuoto. Sul fondo, qualche goccia di frullato. Alla banana. Le piaceva quello.
Terminata la sua insalata, senza degnare i presenti di uno sguardo, camminando a testa bassa, quell'uomo solo, riattraversò la strada di corsa e venne colpito in pieno da una macchina. L'indomani, all'ospedale, venne dimesso in quanto, stranamente, non aveva riportato fratture ma solo qualche contusione.

Si chiamava Alfred il poverino che venne preso per la camicia da Milo.
Era il barista del giorno prima. Quello che gli aveva preparato l'insalata.
In toni poco gentili e sollevandolo di qualche centimetro da terra, Milo gli chiese, con il massimo della cortesia che riusciva ad esprimere, dove fosse la bimba del giorno prima.
"Non so signore, non so. - La prego mi metta giù, la prego!"
Milo lo appoggiò al suolo.
"O mi dici dove posso trovare quella ragazzina oppure sta certo che non potrai continuare a lavorare stasera!"
"Va bene, va bene! Mi lasci, glielo dico!" Le maniere forti, infondo, non tradiscono mai.
Ancora tremante, Alfred sollevò il braccio. La voce mossa, quasi a piangere.
"Tutto quello che so è che arriva sempre da sud, a piedi. Dalla zona desertica. Arriva tutti i giorni intorno alle quattro, sta qui qualche ora, si beve il suo frullato e poi se ne va."
Turbato Milo chiese "Ma paga?"
"No, è quasi un anno ormai che fa così. Il primo giorno, vedendola sola, non le feci pagare nulla e così, da quel giorno, la vedo sempre qui. Si siede sempre lì, allo stesso tavolo e, senza che ordini, le portiamo il suo frullato."
"Ma tutto ciò è ridicolo!" Milo cominciò ad innervosirsi "Mi prendi in giro? Vuoi dirmi che nessuno sa se abbia una madre, una famiglia. Dove viva?"
"Io no!" rispose Alfred, stavolta riassestandosi la camicia in modo deciso, come a dire Ora lasciami in pace!
Lo spinse via, Milo, facendolo quasi cadere. Impugnata la maniglia d'uscita, in alluminio, piantò le unghie e, seccato di dover chiedere per favore, chiese "Per favore, potrei avere un frullato di quelli che piacciono alla piccola? Glielo pago. Me lo metta in una bottiglia, grazie!"
Presa la sua bottiglia uscì da quel locale per non rientrarci più.

Attraversando la strada, stavolta con molta attenzione, corse per alcuni metri. Il locale dove alloggiava era in periferia e dietro a quelle poche case di quel quartiere, la terra lasciava spazio alla steppa semi desertica, solcata da piccole colline di sabbia e terra.
Non dovette attendere poi molto per scorgerla all'ombra, se così si può chiamare, di un arbusto. Poco più in là.
Guardando l'ora vide che era da poco passata l'una.
Mentre si avvicinava, cercava di decidere che tipo di atteggiamento tenere con lei.
"Non la aiuterò" disse la bimba non appena lui fu a pochi metri da lei.
Nonostante avesse appunto immaginato che, anche usando la forza, l'avrebbe costretta a lavorare per lui, non appena si avvicinò a lei il suo intento mutò. Come se qualcuno avesse appena pensato per lui.
Così si inginocchiò, in silenzio, di fianco a lei e cominciò a fissare quello sguardo deciso ed impegnato. Cercava di capire cosa stesse guardando la bimba, così concentrata. Ma non vedeva nulla, lui. Solo sabbia e dune.
"Stai aspettando qualcuno?"
"Non ho genitori, signor Milo. - Milo a me piace. Signor Milo un po' meno. Ti posso chiamare Milo?" Fece lui per rispondere ma lei proseguì "Lo so che preferisci essere chiamato col tuo soprannome ma a me Ronny non piace. Invece Milo mi piace."
Detto ciò tornò a fissare la steppa per diversi minuti, senza proferire parola.
"Ti darò tanti soldi ma ti prego, mi servi". La supplicava seppur, con un gesto, avrebbe potuto mettersela in spalla e portarsela via. Però sapeva che sarebbe stato inutile. Lo sentiva.
La piccola non rispose fino a che non gli disse, un istante prima che lui glielo chiedesse "Ho sei anni e mi chiamo Venice".
Le porse il frullato e, vedendo che non lo accettava, le disse "Prendilo, dai. Tra non molto saranno le quattro, l'ora del frullato".
Ma lei non lo guardò nemmeno.
Dopo qualche istante parlò "Ecco, ora mancano esattamente due ore alle quattro. Perciò se vuoi restare qui, resta in silenzio. Beviti quel frullato e taci. Oppure rapiscimi adesso così ci risparmiamo i convenevoli."
In effetti era l'idea migliore.

Dovette pagare un bel po' di soldi al portiere dell'hotel per portarsi in camera una bambina. E si sentì anche borbottare alle spalle "Che schifo" dalle donne dei piani.
Venice era bella, dentro e anche sotto alla sporcizia.
"Non voglio essere lavata - non voglio il frullato - non riuscirai a farmi niente di male e, infine, non ti aiuterò mai ad uccidere quell'uomo"
"Venice ma io ho bisogno di soldi e mi pagano bene. E tu puoi farmi fare il lavoro in modo sicuro, senza pericoli. E ti potrei dare dei soldi!". Milo credette che nulla di male avrebbe potuto fare alla bimba e così, per questo motivo, nemmeno ci provò con la forza. Si sentiva controllato, dominato. Avere di fronte una bambina che sa cosa pensi e cosa farai prima ancora che tu lo faccia, non è qualcosa di facile consapevolizzazione.
Uscito, tornò con una cesta di mele gialle. Ed un frullato di banana.
"Venice ascolta, io ho due giorni di tempo per fare questo lavoro. O mi aiuti oppure io, a quella gentaglia che mi chiede i soldi, consegnerò te. Il traffico di organi per bambini vale molto più di quello che devo loro!"
La piccola rimase impassibile a scrutarlo, senza giudizio ma solo con tanta e tanta pena.
"Quello che stai dicendo è una cosa che non faresti mai."

"E va bene, è vero!" tuonò "Ma perdio devo trovare un modo di uscirne!"
"Da cosa vuoi uscire, Milo?" chiese lei dolcemente "Da un giro di assassini diventando un assassino?"
Lui cadde in ginocchio, piangendo. Le prese le mani e baciandole, le riempì di lacrime.

"Andiamo a bere il frullato qui di fronte, su! Sono quasi le quattro."

Scesero per mano suscitando l'ira delle signore delle pulizie che, senza troppo regolare il tono, gli dissero di vergognarsi. Aggiunsero anche che avrebbero chiamato la polizia e chissà cos'altro.
Attraversando la strada Milo guardò bene a destra e a sinistra. Prese in braccio la piccola e, guardandola negli occhi, si andò a schiantare addosso ad un passante.
"Oh mi scusi signore, mi perdoni". Sorrise per qualche millesimo di secondo. Il tempo di accorgersi che Venice gli era appena stata strappata di dosso. La teneva in braccio un grosso fratello nero, vestito di una toga sgargiante. Arancione.
Davanti a lui, due uomini di nero vestiti, scrutavano Milo che non comprendeva quanto stesse accadendo.
Indietreggiando di qualche passo, voltandosi per fuggire, finì tra le braccia di un altro signore, vestito di nero. E subito si trovò addosso anche gli altri due e nulla poté se non acconsentire a salire in macchina con loro, debitamente ammanettato.

In auto, davanti a lui, Venice sedeva tra le braccia di quel grosso guardiano in tonaca.
I due si guardavano ma senza parlare.
Milo osservò le loro espressioni del viso mutare ma la bocca sempre chiusa.
Parlò solo uno dei signori in nero. Parlò come noi, usando le lettere che tutti conosciamo.
"Brava Sarah, ottimo lavoro. E' stato più semplice di quanto credessi! Questo era l'ultimo, secondo le mie fonti, dei civili assoldati per far saltare la testa a tuo padre. Adesso per qualche giorno potrai rilassarti!"



mercoledì 9 febbraio 2011

Forgiveness

di Daniela Pasiphae



Era una mattina fredda. I postumi di una notte gelida lasciavano posto a pochi ardui raggi di luce che, a fatica, si ostinavano a voler scaldare quel giorno, ancora addormentato.
Dirigendomi a lunghi passi verso la fermata dell'autobus notai, giungendovi, un ammasso di pelo che sostava in prossimità della tettoia dell'Actv, compagnia locale di trasporto pubblico.
Avvicinandomi mi resi conto che tutto quel mucchio peloso aveva un proprietario che, forse, non si rendeva perfettamente conto che quella giornata splendeva in una meraviglia di raggi vitali e carichi di energia positiva. Una signora, forse sui settanta, infelicemente, si trovava a vivere un'altra giornata di una vita che forse, a guardarla negli occhi, non le aveva donato molto, a parte quella pelliccia, caratterizzata da un pelo ormai stanco, di creature ormai dimenticate da molti anni.
Mi guarda.
Cerco di trattenere un giudizio che, da troppi anni, mi colpisce ogni qual volta realizzo che vi è stata una mancanza di coscienza nei contfronti della Vita.
Mi rendo conto che non provo rabbia ma che inevitabilmente la sto giudicando. E così, come spesso accade, osservo quel mio fastidio ma senza provare odio, neanche per quella povera donna, avvolta nell'inconsapevolezza.
Compassione è il sentimento che va per la maggiore. Va anche un filo di risentimento perché a volte mi risulta davvero arduo non giudicare chi si atteggia portandosi animali morti addosso. Ma poi rifletto e penso che la differenza non è poi molta di chi se li porta nello stomaco.
E' come nascondere la spazzatura anziché lasciarla in bella vista, ma il risultato non cambia.
Arriva l'autobus ed ordinatamente saliamo. Prendo posto e noto che la signora preferisce rimanere in piedi.
Perfidamente, inizio a pensare a tante cose, troppi giudizi. Mi chiedo se non sia per non rovinare la pelliccia che preferisce starsene in piedi. Mi si posiziona davanti. L'autobus si riempie e lei arriva a pochi centimetri dalle mie ginocchia.
La guardo e mi rendo conto che l'espressione è di disprezzo. "Non toccarmi con quella roba morta che ti porti addosso!" penso. E ancora mi immagino di dirle, in tutta pace "Signora a lei piacerebbe se io le mettessi un gatto morto su una spalla?" e vedo lei che, schifata, mi guarda con aria stranita e risponde "Certo che no!" ed io allora concludo "E allora perchè lei mi mette i suoi animali morti addossati alle gambe?".
Chiudo gli occhi e cerco di consapevolizzare. Ascolto qualche nota di Forgiveness di Elisa che ormai mi accompagna quotidianamente.
Apro gli occhi - forgiveness.
Mi metto in pace e sento che il sentimento di risentimento scompare. Prosegue il viaggio senza che questa signora ed i suoi ospiti giustiziati siano motivo di turbamento.
Ma forse l'Universo aveva piacere (o forse era la mia mente combattiva) evidentemente che io mi pronunciassi perché, improvvisamente, l'autista frenò bruscamente, facendo pesantemente spostare tutti i pendolari che sostavano in piedi, col rischio che rovinassero a terra.
Questione di secondi, la signora si riassesta dopo essersi prontamente salvata dal ruzzolone, reggendosi sugli appositi sostegni.
Volta il capo, lo sguardo smarrito ma soddisfatto di avercela fatta, ancora una volta. Di essere rimasta in piedi, nonostante l'età.
Mi guarda, abbozza un sorriso d'ammiccamento, quasi a sembrare buona, e mi apostrofa in tono seccato "Però, come guida questo autista! E' scandaloso!"
Questo che le risposi non venne filtrato dalla Mente perché uscì, con voce cordiale ma pungente, senza che me ne rendessi conto.
"C'è chi guida male e chi si veste di animali morti. Non so cosa sia più scandaloso, sinceramente!"