mercoledì 25 maggio 2011

La Coscienza

di Daniela Pasiphae




Di ritorno, un po’ teso e carico per quando avevo osservato, non riuscii ad ignorare, ancora, quelle tre ragazze.
Tre bellissimi angeli – scoperte le grazie – baciarsi ed accarezzarsi.
Una di loro mi fece un cenno. Mi chiamò.
Fluttuava la sua mano, come un moto di flamenco.
Mi avvicinai, come se non avessi scelta.
Una di loro era completamente dedita a me e si prodigava in tutti i modi possibili per farmi andare tra loro. Le altre due a stento si erano accorte di me.
Prima di immergermi tra loro, rimasi così, in piedi, dall’alto, ad osservare quelle fanciulle. Quest’una sempre a guardarmi, le altre due, castane e forse appena più giovani, stese una sull’altra. Osservavo i loro baci appassionati. Le loro mani scivolare lungo quei corpi dalla pelle così soffice al solo sguardo. Il seno appena accennato.
Improvvisamente interruppero la loro attività per coinvolgere anche la fanciulla che non riusciva a staccarmi gli occhi di dosso. Sembrava costei non essere perfettamente d’accordo con la loro decisione. Pareva più interessata ad osservarmi. Tuttavia sorridente, si rilassò e si lasciò pervadere le membra dalle due castane.
Era un supplizio. Una tormenta psichica senza eguali.
Niente e nessuno mi impediva di partecipare a quel privé. A parte il mio buonsenso.
Non serviva a nulla. Sirha non ne sarebbe andata fiera. Jun ne avrebbe sofferto. Non c’era modo che lo sapessero, in effetti, ma la mia coscienza mi spingeva a considerarlo un azzardo. Qualcosa di estremamente perverso e sbagliato.
E fu così che, con lo sguardo perso in quei corpi accaldati, mi interrogai su cosa fosse la mia coscienza.
Ne convenni in pochi minuti che non fosse nient’altro che una parte di cervello dove, fin da piccolo, avevo inciso le innumerevoli limitazioni cui ero stato sottoposto. Se da piccolo avevo imparato a considerare crudele l’eventualità di cibarmi di carne di cane, la mia coscienza da adulto mi diceva che era un qualcosa di aberrante e, quindi, da non fare. Però mi resi conto che la mia coscienza non si era mai preoccupata di dirmi che anche un vitellino sgozzato era pur sempre una vita che se ne andava, al pari di quella del cane. Era pur sempre un corpo che soffriva, tanto quanto un gatto. La mia coscienza era stata addestrata a ritenere il vitello un animale necessario al mio sostentamento e il cane un animale da compagnia che non era adatto a diventare cibo. Un animale fedele ed affettuoso. La mia coscienza non si era mai domandata se anche il vitellino potesse essere altrettanto affettuoso e fedele. Trilly, in fondo, lo era stata. Era come un cane, la povera Trilly. Nessuno l’avrebbe mai mangiata. Ma allora perché i cugini della mucca Trilly sì e lei no? La mia coscienza dov’era quando mio nonno trucidava altri animali per i quali provava meno affetto? La mia coscienza si preoccupava d’altro poiché era stata addestrata a ritenere certe cose giuste e certe altre sbagliate. Alla mia coscienza, fin da piccolo, avevano detto che il sesso era peccato. Che era sporco, che non si poteva fare se non a scopo riproduttivo. Alla mia coscienza era stato insegnato che con i parenti non si poteva avere rapporti. Era stato insegnato che la differenza di età era un limite. Che la masturbazione era peccato. Che gli organi genitali andavano coperti sempre! Come fossero un qualcosa di cui vergognarsi. Come fossero innaturali. Impuri. La mia coscienza temeva le orge perché fin da piccolo mi avevano insegnato che esistono le famiglie dove c’è moglie, marito e figli. E che i figli sono fratelli. E che nessuno di questi esseri viventi può parlare o mostrare alcun tipo di atteggiamento riguardante il sesso in presenza degli altri famigliari. E i rapporti sessuali di gruppo li vedevi solo nel web. Nei siti rossi e neri dove le persone frustrate andavano a vendere il loro corpo.
A scuola nessuno ci insegnava che le civiltà antiche, le più evolute di sempre, non avevano limiti, ad esempio, in tema sessuale. Che solevano accoppiarsi senza porsi domande su chi fosse con precisione il loro partner ma, soprattutto, su che età avesse e quanti individui fossero coinvolti in quel rapporto nello stesso momento. Nessuno ce lo diceva per evitare appunto che facessimo riflessioni indipendenti. Per evitare che la nostra coscienza venisse compromessa.
Cos’era quindi la coscienza se non una parte di cervello iper-condizionato da limitazioni e dogmi inculcati a forza nel periodo della nostra infanzia?
Mi lasciai sfilare di dosso gli abiti e, senza indugio, trascorsi l’ora più bella della mia vita.


Tratto da The Disciples