venerdì 19 novembre 2010

Gianluca

di Daniela Pasiphae
tratto da "Noraelle To Mars"





Era notte, sulla spiaggia.
Sul bagnasciuga.

Eravamo distesi, lui proteso verso di me. Sulle mie labbra e mi baciava, piano. La visione era in bianco e nero. Solo il sangue sul mio volto era rosso. Scendeva dal naso, sulla bocca, ma non dava fastidio a quel bacio.

Mi sveglio.
Era solo un sogno.
Corro, mi alzo. Sono in ritardo. Dovevo andare a Venezia; come ogni anno per il carnevale noi studenti del liceo artistico eravamo soliti praticare l’arte del trucco come artisti di strada. Consisteva nell’imbrattare la faccia dei turisti come fossero vere e proprie maschere veneziane. Eravamo anche piuttosto bravi io ed il mio gruppo. Peccato che il ricavato della giornata poi ce lo andassimo a bere nei bacari veneziani. I bacari sono delle osterie.
Quella mattina salgo in treno. Preso per un pelo.
Mi siedo e mi guardo intorno.
E così noto subito che, sui posti laterali, paralleli al mio, dopo il corridoio di passaggio, c’è un ragazzo seduto, intento a leggere qualcosa. Il volto mi era coperto da dei fogli che stava leggendo, così mi concentrai sul corpo. La prima cosa che notai fu l’orologio a destra; non so bene perché ma, pur essendo destra, ho sempre portato l’orologio sul polso destro. E’ una cosa che considero molto sexy in un uomo. La vedo come un anticonformismo.
Me ne stavo lì, a percorrere da collo a piedi quel corpo, carpendo ogni minimo dettaglio. Il maglioncino, continuavo a soffermarmi sull’orologio, sulle mani. Le donne guardano sempre le mani.
Fino a che abbassò i fogli, forse per voltare pagina.
Ed era lui.
Era il ragazzo che mi aveva baciata mezz’ora prima, in riva al mare.
Non l’avevo mai visto prima.
Rimasi impietrita, mi corse un brivido lungo la schiena.
Più tardi ci furono persone, amici, conoscenti a cui raccontai questa storia, che affermarono che con tutta probabilità l’avevo già visto, magari di sfuggita, ed il mio cervello l’aveva registrato e riproposto in quel sogno. Forse è un’ipotesi attendibile, un’ipotesi freudiana.
Non lo so, mi son sempre risposta che se l’avessi visto altre volte l’avrei certamente notato. Era indubbiamente un tipo particolare, di un certo stile e molto attraente.
In quel momento non seppi che fare. Propormi, guardarlo, cercare di farmi notare sarebbe stato ridicolo. Ero vestita al limite della decenza. Non ero pettinata, truccata. Niente. E così non mi passò nemmeno per l’anticamera del cervello di mettermi in mostra. Nella mia piccola illusione feci una telefonata, al mio amico Pietro. Gli dissi che sarei arrivata a Piazza san Marco sotto il campanile in un’oretta. Ovviamente solo un miracolo l’avrebbe indotto a cercarmi. Non ero affatto piacente quel giorno.
Scesa dal treno, lo seguii per alcuni metri, nella direzione opposta in cui sarei dovuta andare, ma poi mi fermai. Realizzai che era piuttosto inutile in quanto, appunto, non ero esteticamente preparata e si sa che il primo impatto lo fa l’aspetto esteriore.
Girai i tacchi e me ne andai in piazza.
Raccontai ai miei amici l’accaduto. Solo uno di loro, un ragazzino omosessuale, mi diede retta, entusiasta. Gli altri, chi mi conosceva meglio, mi dissero “Beh ma t’innamori ogni giorno, non fai testo!”
I giorni che seguirono furono un po’ condizionati da questo avvenimento. Sebbene potesse essere un fatto piuttosto quotidiano quello di incontrare una persona interessante mentre si è fuori casa, lo era un po’ meno l’averlo sognato un’ora prima e per di più senza averlo mai visto. Lo cercai le mattine seguenti. Iniziai ad evitare di prendere l’autobus, anche dopo aver ripreso le regolari lezioni, e cominciai a prendere il treno, aumentando di un bel po’ la strada per giungere a scuola.
Non lo rividi però. Nonostante cercassi in treno, con fare vago, ogni mattina, percorrendo i vagoni dal primo all’ultimo, non mi capitò di rivederlo. Avevo quasi ormai abbandonato ogni speranza, l’avevo lasciato cadere tra i ricordi che rimangono in superficie per un po’ e poi scompaiono.
Era una serata di fine febbraio, uno di quei periodi in cui infilarsi sotto una coperta a vedere un film è l’unica cosa piacevole da fare.
Avevo appena visto Pearl Harbor e lo dovevo restituire. Quella sera doveva unirsi a me anche mia sorella per la serata “divano e film” e così fu. Me la portai in videoteca per scegliere il film da vedere.
Me ne stavo lì, tranquilla tra gli espositori, a guardarmi i titoli dei film, alla ricerca di un qualcosa di carino da vedere. Lì piazzata in mezzo al corridoio del negozio, appena all’entrata sulla sezione “Novità”. Nella mano destra il film da restituire; mia sorella a due passi da me.
D’improvviso mi giro a guardare un ragazzo passato dietro di me. Riconosco il Woolrich verde. Era lui.
Mi capitò allora di provare una sensazione che prima di quel momento avevo visto solo nei film, ottenuta con effetti audio. Sentivo mia sorella che mi parlava come se fosse lontanissima, come se tra me e lei vi fosse una barriera che impediva il suono.
Ero lì, piantata in mezzo al corridoio d’entrata. Lui stava restituendo un film. Chiacchierava con la commessa.
Poi si gira e se ne va. Mi scansa ed esce.
Balbettando spiego a mia sorella che era lui, il ragazzo del sogno.
La commessa mi vede impallidita e mi chiede se per caso mi sento male.
No, dice mia sorella, è che le piace quello lì.
Fa cenno con la testa verso la porta d’uscita. Io ancora non riuscivo a parlare. Faccio cenno alla ragazza di stare tranquilla che è tutto a posto.
Ti piace Gianluca?
Ecco che torno in me. Mi avvicino e lei sorridente continua.
Lo conosco, suona nella banda jazz di mio marito.
Prosegue senza farsi troppi scrupoli nel dirmi nome e cognome e paese di residenza, alla faccia della privacy.
In ogni caso non era mio intento, seppur fossi una stupida diciottenne, quello di andargli a suonare alla porta. Così la ringraziai e me ne andai. Senza nemmeno aspettare di arrivare in macchina, inviai un sms ad un amico, un ragazzo che frequentava la mia scuola e che suonava in quella band di paese.
Gli dissi che doveva farmi un favore perché c’era un ragazzo della banda che mi interessava e volevo sapere se era fidanzato e se eventualmente potevo avere un contatto o se poteva fargli avere il mio. Mi disse che appena l’avrebbe visto mi avrebbe fatto sapere.
Passarono i giorni, gli chiesi notizie. Mi disse che non l’aveva visto quella settimana e che avrei dovuto aspettare per la seguente.
Aspettai.
Fino a che arrivò l’atteso sms.
Diceva che gli aveva parlato, che non era fidanzato. Che gli aveva chiesto se sono carina e che gli aveva risposto di sì e lui allora gli aveva detto “dalle pure il mio numero” e così fu.
Non mi sembrava vero.
Così ci incontrammo ed iniziammo ad uscire.
Stavamo bene. Lui era divertente. Si capiva lontano un miglio che non voleva legami e così per un buon periodo pensai che fosse anche per me la soluzione migliore. Alla terza uscita un bacio e via così ma niente sesso. Lui non era innamorato di me e continuava a ripetermi che una persona intelligente non l’avrebbe mai usata.
Un giorno mi stupì; mi disse “Preferisco farmi una sega che scopare con una ragazza che non amo.”
Non so se lo disse pensandolo realmente ma immagino di sì.
Arrivai al punto di pensare di non piacergli abbastanza, almeno esteticamente, ma poi notavo che era spesso lui a chiedermi di uscire, almeno all’inizio.
Purtroppo, tra il fatto che forse non ero abbastanza per lui, tra i suoi impegni universitari ed anche qualche problema famigliare, le uscite sfumarono e a coronare il tutto ci fu la mia bella fortuna che mi fece rompere il collo durante la festa per la maturità.
Così, stroncate le uscite per un bel po’, nel momento in cui stavo ormai meglio, dopo qualche mese, riprovando ad uscire con lui, capii che si era rotto qualcosa e che non c’era poi molto da fare. Cercai di ricongiungere i cocci ma non c’era verso. Così, in virtù di una specie di accordo fatto inizialmente tra di noi e cioè di dire apertamente all’altra persona qualora avessimo trovato qualcun altro con cui frequentarci, lo avvisai di avere un misterioso fidanzato di Bologna.
Niente di più falso ma volevo chiudere quella storia che per me era diventata un’agonia. Siccome a fatti non ce la facevo, siccome ogni volta attendere un suo sms che non arrivava mai era diventato straziante quanto per Penelope l’attesa di Ulisse, un giorno mi feci coraggio e gli dissi di avere conosciuto un ragazzo e che dunque quella nostra pseudo-storia che ormai non esisteva più, si poteva ritenere conclusa.
Non ricordo bene cosa mi rispose ma da lì non ebbi più sue notizie per un paio di mesi.
Questo fino alla notte di Natale.
Ero in macchina con un’amica, ero stata alla celebrazione della mezzanotte. Mi arrivò un sms da parte sua con un pezzo di una canzone dei Tiromancino.
Il mio pensiero vola verso te per raggiungere le immagini, scolpite ormai nella coscienza, come indelebili emozioni che non posso più scordare.
Gli risposi...
E il mio pensiero ti verrà a cercare, tutte le volte che ti sentirò distante, tutte le volte che ti vorrei parlare, per dirti ancora che sei solo tu la cosa che per me è importante.
Questo sms fu per me come una sorta di maledizione. Una formula magica che mi segnò a vita.
Per sette anni, fra decine e decine di situazioni, fra cambi di città, di amori che di sentimentale a conti fatti non avevano nulla, continuai a volare col pensiero su di lui, a sua insaputa, ogni giorno.
Per il primo periodo, per alcuni mesi, rimasi fedele a quel sentimento platonico. Ma non perché pensavo che tra me e lui potesse esserci ancora qualcosa. Solo perché non avevo alcun pensiero al di fuori di lui. Pensare a qualchedun altro non mi veniva davvero spontaneo. E così seguitai a non uscire con altri ragazzi per diversi mesi.
Povero, cercai in ogni modo di farmi notare da lui. Con le buone, supplicandolo, cercando di farlo ingelosire, tutto senza alcun risultato ed anzi, ero talmente piccola ed ignorante nei rapporti sentimentali che ad ogni pressione che gli facevo speravo di ottenere qualcosa e non mi rendevo conto che invece lo stavo solo spingendo lontano. Gli stavo mostrando la parte peggiore di me. Un ruolo che neanche mi apparteneva.
Sicuramente va detto che anche la mia situazione famigliare non era delle migliori e forse in lui vedevo una sorta di punto di riferimento. Forse pensavo che avrebbe potuto capirmi.
Nonostante anche lui fosse solo un ragazzino, con appena due anni più di me, e dunque vent’anni, ricordo che aveva un’intelligenza straordinaria, uno stile incomparabile e una sensibilità che solo una sera mi fu dato di toccare con mano. Una sera in cui l’alcool aveva fatto la sua parte, appena il giusto per lasciarlo libero di raccontarmi alcune cose.

E così, l’ho amato per sette anni. In questi sette anni solo Dio sa cosa ho fatto per lui. Ovviamente sempre - tutto a sommarsi per contribuire ad avere una visione terribilmente psicotica della mia personalità - ai suoi occhi.
Una sera avevo appena accompagnato mia madre da un’amica e le avevo chiesto di poter tenere la macchina per fare un giro da qualche parte, promettendole di tornare a riprenderla in tarda nottata. Era estate e si sarebbe concessa una serata di chiacchiere.
Così presi a vagare per le strade e, senza nemmeno stabilirlo, mi ritrovai davanti a casa sua.
Senza troppo pensarci gli mandai un sms chiedendogli di uscire perché avrei voluto vederlo e parlargli. Dicendogli che ero sotto casa sua.
La sua auto era parcheggiata, la luce accesa in casa, nelle stanze superiori.
Non ricevendo risposta gliene mandai un altro scrivendogli che sarei rimasta lì fino a che non fosse uscito.
E così rimasi lì sotto, qualche metro più avanti di casa sua, per qualche ora. Addirittura - addormentandomi, alla fine, esausta. Fino all’arrivo della telefonata di mia madre per andare a riprenderla.
Io mi rendo conto che, per chi subisce, questo possa sembrare un atto irrispettoso. Io certo non avevo alcun diritto di importunarlo in alcun modo. Era follia, semplice e pura - follia.
Quando guardo questo gesto dal suo punto di vista mi rendo conto che nulla di quello che ho fatto in quegli anni è servito per dare un’immagine positiva di me e di quello che provavo per lui.
Ma quando guardo questa faccenda da fuori, quando ci penso, non posso fare a meno di commuovermi per l’intenso carico emozionale di questo gesto.
Non credo che in amore esista follia dove non c’è possesso.
Ed io in quel caso non ho mai avuto pretese di possesso. Era semplice trasporto. Totale - se vogliamo.
Alcune persone mi dissero, nel corso di questi anni, che la mia fissazione era data dal fatto che non avevo potuto fare l’amore con lui.
Io invece ho sempre risposto che la fissazione negli anni è aumentata. Man mano che crescevo e prendevo coscienza di me, man mano che diventavo la persona che sono, mi rendevo conto che sarebbe stato bello avere il diritto di farmi conoscere da lui. Di nuovo.
In fin dei conti, le persone cambiano.
Non solo per essere rigiudicata da lui ma anche e soprattutto per guardare lui con degli occhi nuovi. Quelli che avevo acquistato nel corso degli anni.
E poi, riguardo al sesso, io posso giurare che mai come con lui è stata l’ultima cosa a cui ho pensato. Non certo perché non fossi attratta da lui, ma proprio perché ero totalmente presa dalla sua personalità e non dalla situazione, sentivo che il rapporto sessuale in se non contava. Che stavo veramente bene con lui e in sua compagnia.
Chiaramente, per l’età e per le cose che senti dire dagli amici, io mi ero mostrata disponibile a proseguire oltre al bacio. E’ stato lui a fermarmi.
Poi, sempre dopo, trascorsi gli anni, ho capito quel gesto.
Rispetto.
Qualcosa che ad ora, quando ci penso, mi fa rabbrividire e mi crea un nodo in gola.
Sette anni sono una data indicativa.
Dopo sette anni mi sono imposta di dire che non l’amavo più e che la mia vita non doveva più basarsi su nulla che lo riguardasse.

Inutile comunque, anche fossi riuscita ad imporre al mio stato conscio di non pensare a lui, saltuariamente - qualche notte, il mio io torna a ricordarmi e a dirmi che non devo dimenticare.

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