mercoledì 28 maggio 2014

Knights of Cydonia

di Daniela Pasiphae 




Discendono da monti mai esistiti,
percorrendo strade di stelle.
E bruciano come giraffe daliniane,
impassibili come nulla fosse.

Soffrono l'ipocrisia,
sono stati mandati da Dio.

Tutti creati per morire,
cantando false note di vita.
Soffriamo amori irraggiungibili,
come fossero un diritto.

Speriamo nel sesso,
come fessura verso la salvezza.

Dio non ci voleva,
voleva solo conoscersi.
Non ci si conosce che nella dualità,
l'osservatore giudice.

Potrai perdonare
tutte queste false pene?

I Cavalieri di Cydonia,
reali quanto questo sangue blu.
Ameremo anche i nostri fantasmi
o continueremo ad odiare?

Dio non perdona,
non contempla errore, mai.

Moriremo come lumache,
stuprate dal sale.
Qualcuno riderà e piangerà perle,
assistendoci stoico.

Ego liquefatto,
nessuno saprà mai niente.

Conosceremo la Via,
nessuno resterà fuori.
L'immensità ha già grattato e vinto,
è una lotta impari.

Non abbiamo certezze,
teniamoci strette queste illusioni.

lunedì 19 maggio 2014

Mostricando

di Daniela Pasiphae



Incastonata in un crepaccio,
sul fondale di un oceano senza amore,
ho imparato a parlare coi mostri marini.

Sovente curo loro i denti aguzzi
affinché possano agguantare qualche anima in superficie
e trascinarla da me, ferita e indifesa, a farmi compagnia.



sabato 17 maggio 2014

Non seppi mai cosa fosse l'amore..

di Daniela Pasiphae
serie "AWARE"



Torakiki non era ancora rientrato e cominciavo a preoccuparmi. Camminavo avanti e indietro sul pianerottolo. Su e giù come una merla indaffarata a farsi il nido, fin tanto che Heidi, che aveva appena finito si pittarsi le unghie con uno smalto sudicio e catramoso trovato in un cassetto qualche giorno prima, si alzò in piedi e venne verso di me con passo deciso e poco cordiale.
"Credo che dovresti smetterla di preoccuparti per lui!" disse ad alta voce affiché tutti gli affacciati alla tromba delle scale potessero sentire. "Dopotutto" continuò "lui non ricambia i tuoi sentimenti, è evidente!"

Guardai sul pianerottolo al piano di sotto. Stavano Maia e Magà, le due sorelline nere, le più piccole della nostra comunità. Mi guardavano, affamate, forse un po' felici di avere qualcosa da fare per dimenticarsi che non mangiavano da quasi due giorni. Ascoltavano Heidi che farfugliava astratti concetti sull'amore terreno e massime rubate a qualche ubriacone dei bei tempi andati.
"Ama chi ti ama, non amare chi ti sfugge, ama quel cuore che per te si strugge.. disse..." batté un piede per terra, forse provando a ricordare o a farsi ascoltare "...disse...chi diavolo lo disse?" domandò seccata.
Shakespeare, ma non glielo rivelai. In realtà non volevo che smettesse di parlare perché quel silenzio che calava durante il giorno, quando gli uomini uscivano per cercarci del cibo, era la sensazione più straziante che avessi mai vissuto. Era perfino più angosciante delle notti passate fra le braccia di mia madre sapendo che da un secondo all'altro saremmo potute morire in qualche esplosione o dell'attimo in cui, ingerendo qualche sorta di cibo che riuscivamo a raccattare, non sapevamo se ci avrebbe saziati o uccisi. Niente era così angosciante come l'attesa degli uomini che uscivano a cercare il cibo, perché non si trattava solo di una questione di pura sopravvivenza legata allo sfamarsi, ma c'erano sopra mille diverse emozioni sul sentirsi protette e sicure che noi donne (non tutte) avevamo conservato. C'erano le serate raccolti tutti insieme intorno al fuoco a cantare, quando la musica era ormai la sola sfumatura di umanità che ci avessero lasciato. C'erano i corpi caldi ed eccitati di quando, per non morire di freddo, si dormiva tutti assieme e stretti l'uno addosso all'altro. C'era che speravo facesse freddo per farmi abbracciare, perché gli uomini ci concedevano affetto solo quando il loro donarsi poteva essere giustificato agli occhi degli altri come una necessità. Allora, curare un'ammalata o abbracciarla per non farla morire di freddo, era contemplato, non lo erano invece le coccole fini a loro stesse. Non lo erano i sorrisi, se non motivati da qualcosa che facesse davvero ridere.

La devastazione ci aveva lasciati come bestie vagabonde. Costretti a smettere di provare emozioni perché i sentimenti corrodevano le ferite ed arrivavano all'osso e, senza neanche lasciarci la possibilità di controbattere, ci ritrovavamo in fin di vita. La depressione aveva ucciso più di quanto la guerra non avesse fatto. Le persone morivano quando si lasciavano scavare dai sentimenti perché, nel tentativo di difendere la loro posizione di fronte al mondo e il loro diritto alla sofferenza, cercavano di concretizzare le loro ideologie. Si rendevano martiri per provare che la sofferenza esisteva davvero.

Io ero una di loro. Ero il lupo che si struggeva sotto la luna e la madre urlante che deponeva il cadavere del figlio dalla croce. Ero quella che si ammalava per farsi abbracciare, che soffriva di continui raffreddori quando doveva costringersi ad una separazione, ed ero quella che aveva deciso che, se Torakiki non sarebbe tornato entro il mattino seguente, sarei andata a cercarlo, ben sapendo che avrei rischiato la morte e felice di lasciare questo mondo tenendo alto lo stendardo di quell'agognato rapporto sessuale fra amore e sofferenza.

Shiro, Conan e il piccolo Goku erano tornati da ormai tre ore riferendo che Torakiki si era allontanato senza dire nulla e che da quel momento l'avevano perso di vista.
I nostri nomi erano stati prima ignorati, poi incendiati ed, infine, dimenticati. Avevamo scelto di darci dei nomi dei nostri cartoni animati preferiti e così anche i nuovi arrivati dovevano fare lo stesso. L'ultimo arrivato, di appena ventitré anni, era appunto Goku.
Io mi chiamavo Memole.

Quella notte non dormii. Appena albeggiò mi infilai quella piccola armatura leggera che indossavo durante gli spostamenti che compivamo una volta al mese. Lo feci mentre tutti dormivano. Poi spalancai la porta senza destare nessuno, mi immersi nella nebbia e mi affidai alla morte.

Nei giorni in cui girovagai in cerca di Torakiki, capii che era davvero assurdo quello che avevo deciso di fare. I primi due giorni provai a sentirmi una persona migliore degli altri. Camminavo fra le macerie di vite altrui e mi chiedevo se qualcuno avesse mai amato così tanto quegli individui ormai diventati ossa da dare la vita per loro.
Ma, il quarto giorno, prima di accasciarmi al suolo stremata e lasciarmi uccidere dalla sete, mi resi davvero conto di una cosa: nessun amore per il prossimo ha davvero senso se prima non c'è amore per sé stessi. Sembrerà anche banale, ma io lo capii davvero. Non fu solo una frase detta da non so chi. Fu una presa di coscienza.

Me ne resi conto perché, mentre annaspavo nella sabbia, mi domandai chi avrebbe amato Torakiki dopo la mia morte. Mi accorsi che non possiamo amare e coccolare nessuno se non possediamo un corpo e una mente sani e in grado di aiutare davvero gli altri. Mi accorsi che l'ansia di mostrarmi innamorata mi aveva condotta alla morte, mi aveva distolta da ogni ragionamento lucido e spinta a creare un valore pratico al mio soffrire estatico. Quale miglior compimento, infatti, di una morte che riempie di valore agli occhi di tutti quella che prima era solo un'idea di sentimento messa in dubbio in primis da me stessa e in secundis da tutto il mondo?

La mia morte incoronò la Principessa Idea facendola diventare la Regina dell'Amore. Ma solo nei miei pensieri. Ciò bastò a farmi lasciare il corpo con un velo di malinconia.

Morii sperando che qualcuno avrebbe considerato la mia morte come un gesto d'amore, ma ben conscia che niente di quello che facciamo nella materia può veicolare un sentimento così aulico come l'amore.

Morii non sapendo che Torakiki era rientrato quella mattina, poco dopo la mia dipartita, e che non solo non si era preoccupato di venirmi a cercare, ma che aveva dichiarato il suo ardente interesse per Heidi, rivelandole che si sentiva finalmente libero e privo di colpe che invece gli avrei caricato addosso io nel qualcaso avesse confessato il suo interesse per un'altra in mia presenza.

Non seppi mai cosa fosse l'amore, ma credere di averlo saputo è stato comunque divertente..




mercoledì 14 maggio 2014

La morte della chimera

di Daniela Pasiphae



Temporeggia il condor sulla carogna,
mentre lo zombie femmina, traballante,
scavalca le soglie della mia fortezza et
ghermisce anime sbottando in grasse risate.
(grasse da far schifo)

Si accascia al suolo e ride piangendo,
trasuda sangue e vorrebbe scannarmi.
Ingoiarmi. Inglobarmi.. Condividersi et
si contorce ignava perché sa che non mi avrà.
(che non mi ha mai avuto)

Le infilo le dita nei buchi del cranio,
graffio il mio nome sulla corteccia cerebrale.
Non mi importa se le fa male, incido a forza et
violento le sue credenze affinché si senta inutile.
(amo le sue cose ma non lei)

Cavalco per un mese un tornado disegnato,
narro vicende di folletti spremuti come limoni.
Nettare ballerino con barba, cappello a punta et
un briciolo di galanteria giusto per renderlo credibile.
(non so, una giacca ceduta)

E la chimera si struscia sui miei calzari,
il leone mi narra di saggi filosofi ed asceti.
Il drago mi mostra i denti, la sua gola profonda, et
el cabròn me hace sentir amado y inteligente.
(tanto poi lo decapiterò)


Mi agguanta con le unghie unte di dolore,
mi sussurra dolci nenie sibilanti all'orecchio.
Velenose e viscide, calpestate da zoccoli neri et
cerca le mie labbra come un capezzolo, un bimbo.
(putrido intento, vomito)

Non ho più gustato carne da quel giorno,
occhi. Ma a cavar il cuore ad umane son bravo.
Accompagno l'articolata belva al mio fianco et
la tocco come fossimo amanti. La penetro.
(ma non mi piace, gelo)

Al leone districo regalmente la criniera,
al rettile di carbone infilo due dita in gola.
E sgozzo la madre dei cuccioli belanti et
ne bevo il rubineo sangue sgorgante dal petto.
(lentamente, molto lentamente)

Arranca la fiera, come un toro ferito,
ma a me occorre quel sangue. Ne ho bisogno.
Vacilla la mia crudeltà in quel tripudio di dolore et
odo inumane urla che non placheranno la mia sete.
(io devo vivere, io e solo io)

Mi interpellano i santi ma vestono di rosso,
altri sono nudi e parlano una lingua che non so.
Mi si avvicina un angelo dai denti aguzzi et
mi strappa le orecchie affinché possa sentire.

(questo non è il paradiso, dice)


domenica 11 maggio 2014

Ma veramente.. io..

di Daniela Pasiphae 


Allora forza adesso vestiti bene
Imbrattati la faccia di pittura
Strappati i peli cucendoti la coscienza
Non dire a nessuno che non vai bene
Ma fingi
Spingi
Ma dipingi
Dipingiti la faccia
Strappati la bruttezza di dosso
E ricopriti di falsità
Perché a tutti fa meno paura

Allora forza, dai
Costringi un bambino sano
A diventare un essere umano
Digli come deve pensare
Fare, amare
Pisciare

Sto in piedi prenditi i miei momenti
Resto ferma Rubali
Sto..
Insegnami l'inno dei maledetti
Dimmi come fa
Urlami dentro

Prenditi questo momento
Te lo regalo, io ne ho tanti
Prenditi questa cosa ma non darle un nome
Tanto morirà e sarà comunque "boh"..

Ti regalo questa goccia che esce dai miei occhi
Ti dono questo velo che ricopre le mie membra
Prenditi tutte le immagini di me
Mostrami che in fondo
Non ha senso amare un soggetto
..soggetto.. ad alterazioni
 Ma dai, cazzo, cantami le tue canzoni

Dove vai ..aspetta
Ma veramente io...
Veramente non lo so
Provavo solo ad assomigliare a Dio
Per poi scoprire che Satana esiste davvero
 Ma veramente io.. Ma veramente Dio...
Dio ma veramente tu mi preferisci così?
Davvero tu ami un... Davvero ami? Amore...

Amore fai così
Amore mettiti lì
Amore solo se
Solo se baci
Solo se ridi
Amore in un cantiere
Fai questo, fai quello
Ma vattene lontano!

Anzi no vieni qui
Non lo so, resta lì

Ah ma te ne vai già?
Ah ma...ma veramente..
Veramente io credevo..
Veramente io pensavo
Ma.. Veramente io..
Io veramente..
 
Ti ho giusto appena sfiorato
Aspetta.. Dai

Un volo ad ali chiuse
Aspe..

Una rosa senza odore
Asp..

E tre secondi di dolore
A..

..llora ciao

ci sentiamo.