mercoledì 28 maggio 2014

Knights of Cydonia

di Daniela Pasiphae 




Discendono da monti mai esistiti,
percorrendo strade di stelle.
E bruciano come giraffe daliniane,
impassibili come nulla fosse.

Soffrono l'ipocrisia,
sono stati mandati da Dio.

Tutti creati per morire,
cantando false note di vita.
Soffriamo amori irraggiungibili,
come fossero un diritto.

Speriamo nel sesso,
come fessura verso la salvezza.

Dio non ci voleva,
voleva solo conoscersi.
Non ci si conosce che nella dualità,
l'osservatore giudice.

Potrai perdonare
tutte queste false pene?

I Cavalieri di Cydonia,
reali quanto questo sangue blu.
Ameremo anche i nostri fantasmi
o continueremo ad odiare?

Dio non perdona,
non contempla errore, mai.

Moriremo come lumache,
stuprate dal sale.
Qualcuno riderà e piangerà perle,
assistendoci stoico.

Ego liquefatto,
nessuno saprà mai niente.

Conosceremo la Via,
nessuno resterà fuori.
L'immensità ha già grattato e vinto,
è una lotta impari.

Non abbiamo certezze,
teniamoci strette queste illusioni.

lunedì 19 maggio 2014

Mostricando

di Daniela Pasiphae



Incastonata in un crepaccio,
sul fondale di un oceano senza amore,
ho imparato a parlare coi mostri marini.

Sovente curo loro i denti aguzzi
affinché possano agguantare qualche anima in superficie
e trascinarla da me, ferita e indifesa, a farmi compagnia.



sabato 17 maggio 2014

Non seppi mai cosa fosse l'amore..

di Daniela Pasiphae
serie "AWARE"



Torakiki non era ancora rientrato e cominciavo a preoccuparmi. Camminavo avanti e indietro sul pianerottolo. Su e giù come una merla indaffarata a farsi il nido, fin tanto che Heidi, che aveva appena finito si pittarsi le unghie con uno smalto sudicio e catramoso trovato in un cassetto qualche giorno prima, si alzò in piedi e venne verso di me con passo deciso e poco cordiale.
"Credo che dovresti smetterla di preoccuparti per lui!" disse ad alta voce affiché tutti gli affacciati alla tromba delle scale potessero sentire. "Dopotutto" continuò "lui non ricambia i tuoi sentimenti, è evidente!"

Guardai sul pianerottolo al piano di sotto. Stavano Maia e Magà, le due sorelline nere, le più piccole della nostra comunità. Mi guardavano, affamate, forse un po' felici di avere qualcosa da fare per dimenticarsi che non mangiavano da quasi due giorni. Ascoltavano Heidi che farfugliava astratti concetti sull'amore terreno e massime rubate a qualche ubriacone dei bei tempi andati.
"Ama chi ti ama, non amare chi ti sfugge, ama quel cuore che per te si strugge.. disse..." batté un piede per terra, forse provando a ricordare o a farsi ascoltare "...disse...chi diavolo lo disse?" domandò seccata.
Shakespeare, ma non glielo rivelai. In realtà non volevo che smettesse di parlare perché quel silenzio che calava durante il giorno, quando gli uomini uscivano per cercarci del cibo, era la sensazione più straziante che avessi mai vissuto. Era perfino più angosciante delle notti passate fra le braccia di mia madre sapendo che da un secondo all'altro saremmo potute morire in qualche esplosione o dell'attimo in cui, ingerendo qualche sorta di cibo che riuscivamo a raccattare, non sapevamo se ci avrebbe saziati o uccisi. Niente era così angosciante come l'attesa degli uomini che uscivano a cercare il cibo, perché non si trattava solo di una questione di pura sopravvivenza legata allo sfamarsi, ma c'erano sopra mille diverse emozioni sul sentirsi protette e sicure che noi donne (non tutte) avevamo conservato. C'erano le serate raccolti tutti insieme intorno al fuoco a cantare, quando la musica era ormai la sola sfumatura di umanità che ci avessero lasciato. C'erano i corpi caldi ed eccitati di quando, per non morire di freddo, si dormiva tutti assieme e stretti l'uno addosso all'altro. C'era che speravo facesse freddo per farmi abbracciare, perché gli uomini ci concedevano affetto solo quando il loro donarsi poteva essere giustificato agli occhi degli altri come una necessità. Allora, curare un'ammalata o abbracciarla per non farla morire di freddo, era contemplato, non lo erano invece le coccole fini a loro stesse. Non lo erano i sorrisi, se non motivati da qualcosa che facesse davvero ridere.

La devastazione ci aveva lasciati come bestie vagabonde. Costretti a smettere di provare emozioni perché i sentimenti corrodevano le ferite ed arrivavano all'osso e, senza neanche lasciarci la possibilità di controbattere, ci ritrovavamo in fin di vita. La depressione aveva ucciso più di quanto la guerra non avesse fatto. Le persone morivano quando si lasciavano scavare dai sentimenti perché, nel tentativo di difendere la loro posizione di fronte al mondo e il loro diritto alla sofferenza, cercavano di concretizzare le loro ideologie. Si rendevano martiri per provare che la sofferenza esisteva davvero.

Io ero una di loro. Ero il lupo che si struggeva sotto la luna e la madre urlante che deponeva il cadavere del figlio dalla croce. Ero quella che si ammalava per farsi abbracciare, che soffriva di continui raffreddori quando doveva costringersi ad una separazione, ed ero quella che aveva deciso che, se Torakiki non sarebbe tornato entro il mattino seguente, sarei andata a cercarlo, ben sapendo che avrei rischiato la morte e felice di lasciare questo mondo tenendo alto lo stendardo di quell'agognato rapporto sessuale fra amore e sofferenza.

Shiro, Conan e il piccolo Goku erano tornati da ormai tre ore riferendo che Torakiki si era allontanato senza dire nulla e che da quel momento l'avevano perso di vista.
I nostri nomi erano stati prima ignorati, poi incendiati ed, infine, dimenticati. Avevamo scelto di darci dei nomi dei nostri cartoni animati preferiti e così anche i nuovi arrivati dovevano fare lo stesso. L'ultimo arrivato, di appena ventitré anni, era appunto Goku.
Io mi chiamavo Memole.

Quella notte non dormii. Appena albeggiò mi infilai quella piccola armatura leggera che indossavo durante gli spostamenti che compivamo una volta al mese. Lo feci mentre tutti dormivano. Poi spalancai la porta senza destare nessuno, mi immersi nella nebbia e mi affidai alla morte.

Nei giorni in cui girovagai in cerca di Torakiki, capii che era davvero assurdo quello che avevo deciso di fare. I primi due giorni provai a sentirmi una persona migliore degli altri. Camminavo fra le macerie di vite altrui e mi chiedevo se qualcuno avesse mai amato così tanto quegli individui ormai diventati ossa da dare la vita per loro.
Ma, il quarto giorno, prima di accasciarmi al suolo stremata e lasciarmi uccidere dalla sete, mi resi davvero conto di una cosa: nessun amore per il prossimo ha davvero senso se prima non c'è amore per sé stessi. Sembrerà anche banale, ma io lo capii davvero. Non fu solo una frase detta da non so chi. Fu una presa di coscienza.

Me ne resi conto perché, mentre annaspavo nella sabbia, mi domandai chi avrebbe amato Torakiki dopo la mia morte. Mi accorsi che non possiamo amare e coccolare nessuno se non possediamo un corpo e una mente sani e in grado di aiutare davvero gli altri. Mi accorsi che l'ansia di mostrarmi innamorata mi aveva condotta alla morte, mi aveva distolta da ogni ragionamento lucido e spinta a creare un valore pratico al mio soffrire estatico. Quale miglior compimento, infatti, di una morte che riempie di valore agli occhi di tutti quella che prima era solo un'idea di sentimento messa in dubbio in primis da me stessa e in secundis da tutto il mondo?

La mia morte incoronò la Principessa Idea facendola diventare la Regina dell'Amore. Ma solo nei miei pensieri. Ciò bastò a farmi lasciare il corpo con un velo di malinconia.

Morii sperando che qualcuno avrebbe considerato la mia morte come un gesto d'amore, ma ben conscia che niente di quello che facciamo nella materia può veicolare un sentimento così aulico come l'amore.

Morii non sapendo che Torakiki era rientrato quella mattina, poco dopo la mia dipartita, e che non solo non si era preoccupato di venirmi a cercare, ma che aveva dichiarato il suo ardente interesse per Heidi, rivelandole che si sentiva finalmente libero e privo di colpe che invece gli avrei caricato addosso io nel qualcaso avesse confessato il suo interesse per un'altra in mia presenza.

Non seppi mai cosa fosse l'amore, ma credere di averlo saputo è stato comunque divertente..




mercoledì 14 maggio 2014

La morte della chimera

di Daniela Pasiphae



Temporeggia il condor sulla carogna,
mentre lo zombie femmina, traballante,
scavalca le soglie della mia fortezza et
ghermisce anime sbottando in grasse risate.
(grasse da far schifo)

Si accascia al suolo e ride piangendo,
trasuda sangue e vorrebbe scannarmi.
Ingoiarmi. Inglobarmi.. Condividersi et
si contorce ignava perché sa che non mi avrà.
(che non mi ha mai avuto)

Le infilo le dita nei buchi del cranio,
graffio il mio nome sulla corteccia cerebrale.
Non mi importa se le fa male, incido a forza et
violento le sue credenze affinché si senta inutile.
(amo le sue cose ma non lei)

Cavalco per un mese un tornado disegnato,
narro vicende di folletti spremuti come limoni.
Nettare ballerino con barba, cappello a punta et
un briciolo di galanteria giusto per renderlo credibile.
(non so, una giacca ceduta)

E la chimera si struscia sui miei calzari,
il leone mi narra di saggi filosofi ed asceti.
Il drago mi mostra i denti, la sua gola profonda, et
el cabròn me hace sentir amado y inteligente.
(tanto poi lo decapiterò)


Mi agguanta con le unghie unte di dolore,
mi sussurra dolci nenie sibilanti all'orecchio.
Velenose e viscide, calpestate da zoccoli neri et
cerca le mie labbra come un capezzolo, un bimbo.
(putrido intento, vomito)

Non ho più gustato carne da quel giorno,
occhi. Ma a cavar il cuore ad umane son bravo.
Accompagno l'articolata belva al mio fianco et
la tocco come fossimo amanti. La penetro.
(ma non mi piace, gelo)

Al leone districo regalmente la criniera,
al rettile di carbone infilo due dita in gola.
E sgozzo la madre dei cuccioli belanti et
ne bevo il rubineo sangue sgorgante dal petto.
(lentamente, molto lentamente)

Arranca la fiera, come un toro ferito,
ma a me occorre quel sangue. Ne ho bisogno.
Vacilla la mia crudeltà in quel tripudio di dolore et
odo inumane urla che non placheranno la mia sete.
(io devo vivere, io e solo io)

Mi interpellano i santi ma vestono di rosso,
altri sono nudi e parlano una lingua che non so.
Mi si avvicina un angelo dai denti aguzzi et
mi strappa le orecchie affinché possa sentire.

(questo non è il paradiso, dice)


domenica 11 maggio 2014

Ma veramente.. io..

di Daniela Pasiphae 


Allora forza adesso vestiti bene
Imbrattati la faccia di pittura
Strappati i peli cucendoti la coscienza
Non dire a nessuno che non vai bene
Ma fingi
Spingi
Ma dipingi
Dipingiti la faccia
Strappati la bruttezza di dosso
E ricopriti di falsità
Perché a tutti fa meno paura

Allora forza, dai
Costringi un bambino sano
A diventare un essere umano
Digli come deve pensare
Fare, amare
Pisciare

Sto in piedi prenditi i miei momenti
Resto ferma Rubali
Sto..
Insegnami l'inno dei maledetti
Dimmi come fa
Urlami dentro

Prenditi questo momento
Te lo regalo, io ne ho tanti
Prenditi questa cosa ma non darle un nome
Tanto morirà e sarà comunque "boh"..

Ti regalo questa goccia che esce dai miei occhi
Ti dono questo velo che ricopre le mie membra
Prenditi tutte le immagini di me
Mostrami che in fondo
Non ha senso amare un soggetto
..soggetto.. ad alterazioni
 Ma dai, cazzo, cantami le tue canzoni

Dove vai ..aspetta
Ma veramente io...
Veramente non lo so
Provavo solo ad assomigliare a Dio
Per poi scoprire che Satana esiste davvero
 Ma veramente io.. Ma veramente Dio...
Dio ma veramente tu mi preferisci così?
Davvero tu ami un... Davvero ami? Amore...

Amore fai così
Amore mettiti lì
Amore solo se
Solo se baci
Solo se ridi
Amore in un cantiere
Fai questo, fai quello
Ma vattene lontano!

Anzi no vieni qui
Non lo so, resta lì

Ah ma te ne vai già?
Ah ma...ma veramente..
Veramente io credevo..
Veramente io pensavo
Ma.. Veramente io..
Io veramente..
 
Ti ho giusto appena sfiorato
Aspetta.. Dai

Un volo ad ali chiuse
Aspe..

Una rosa senza odore
Asp..

E tre secondi di dolore
A..

..llora ciao

ci sentiamo. 

lunedì 31 marzo 2014

Rachel - Ep. 6

di Daniela Pasiphae

<< Episodio 1
<< Episodio 5


Faceva sempre così quando qualcuno le si avvicinava troppo.
Non parlo di vicinanza fisica, quella la accettava e le serviva e la tollerava bene.
Quello che non riusciva a sopportare, inconsciamente, erano le persone che si avvicinavano troppo al suo essere intimo ed inconscio, alla sua anima e a quello che era veramente lei come persona.
Le capitava allora di entrare in conflitto con se stessa e di creare migliaia di occasioni per fuggire.
Lo stesso faceva con tutte le cose che potevano darle felicità.

Col tempo si era resa conto che il suo atteggiamento era addirittura patologico. Non appena qualcosa le si avvicinava quel poco da darle l'idea che sarebbe potuta essere felice ed amata, lei lo distruggeva. Distruggeva in modo sistematico e lo faceva sempre nel modo migliore, cercando cioè di non sembrare che la responsabilità fosse sua. Dare la colpa agli eventi e al fato era la sua specialità.

Un'altra attività, in parte parallela, che amava tanto fare era quella di mantenersi sempre una via di fuga. Cercava sempre di guadagnarci qualcosa ma senza rischiare. Creava strutture secondo cui pareva che fosse in gioco quando, in realtà, manteneva sempre un piede in salvo, pronto per ritrarsi al primo accenno di vuoto.

Quello che Rachel temeva era il vuoto dell'abbandono. Il rifiuto. Il nulla.
Temeva di donarsi a chi poi non l'avrebbe compresa, temeva di aprirsi con chi non avrebbe mai saputo intersecarsi con la sua dolcezza e, più di tutto, temeva di mostrarsi com'era a chi non avrebbe mai e poi mai compreso che, dietro ai suoi modi da dura ed anaffettiva, si nascondeva solo una grande paura di mettersi in gioco e di lasciarsi voler bene.

Rachel giustificava il tutto appellandosi al fatto che i suoi genitori l'avevano sempre fatta sentire una reietta, non voluta, non amata, poco considerata.
Un bimbo viene al mondo col solo desiderio di amare ed essere amato, di ridere e di scherzare, e ben presto impara che non c'è niente da ridere, c'è poco da amare e c'è molto da piangere.

Lasciò Cris e la casa dei suoi genitori ancor prima che essi tornassero.
Rivederli la metteva in uno stato di soggezione. C'era il rischio che potesse scoprire che li voleva abbracciare ma che non sapeva come fare.

In aereo, durante il suo viaggio di ritorno, si ricordò di quando a diciott'anni, per la prima volta, col suo primo fidanzatino, si erano abbracciati. Lei non riusciva ad abbracciarlo, a lasciarsi andare e non riusciva nemmeno a farsi abbracciare. Rimaneva pietrificata, come se qualcuno le volesse fare del male. Non sapeva ricevere né tanto meno stringersi ad un altro corpo. Stephen, il ragazzo che la cingeva a sé, la accarezzò dicendole con estrema dolcezza "Povera, non sai neanche abbracciare..." poi la strinse forte sussurrandole all'orecchio "Lasciati andare...nessuno ti farà male..." e da quel giorno Rachel cominciò a rischiare, per la prima volta dopo tanti anni.

Sì qualche volta le capitò anche di soffrire, di essere rifiutata, ma gli attimi che trascorreva mentre faceva fluire amore dal suo corpo verso un'altra creatura e quelli in cui riceveva affetto e amore, valevano sempre e comunque il rischio di un rifiuto.

lunedì 24 marzo 2014

Ero uno Scheletro

di Daniela Pasiphae
serie "AWARE"



Ero uno scheletro e stavo sempre per terra. Ero proprio ossa e nient'altro. Non avevo tendini, non avevo muscoli, non avevo organi e non avevo neanche la volontà di alzarmi e di cercarli.
Sapete, non ero sempre stato così, una volta ero stato un bellissimo ragazzo che faceva sport e avevo la fila di belle ragazze che volevano venire a letto con me. Ma io non le volevo, non volevo essere felice e volevo avere problemi.
E così, piano piano, mi sono lasciato spolpare. Depredare di ogni brandello di me. Tutti prendevano, io davo. Non era generosità, era desiderio di morire in fretta. Era anche un po' di falsa credenza che, se avessi ceduto agli altri ogni parte di me, allora forse avrei avuto un senso in questa inutile vita. Forse mi avrebbero voluto bene. Volete sapere a chi ho ceduto me stesso? Seguitemi, ve lo racconto.
Un giorno me ne stavo disteso su quel prato. Era qualche anno che ero lì disteso. A volte cambiavo un po' posizione, ma poco perché avevo sempre meno forze per muovermi. Ad un certo punto un piede mi calpestò.


Non era la prima volta che un piede mi calpestava ma quel giorno fu la prima volta che mi venne chiesto scusa. Lei passò, aveva dei bellissimi capelli ramati, mossi dal vento, e un vestito bianco che sembrava la veste di un angelo. Mi passò sopra, mi calpestò un ginocchio, ma fu bello. Non mi scricchiolò nemmeno la rotula da quanta grazia ebbe nel calpestarmi. Ma poi accadde una cosa incredibile. "Oh!" disse, spostandosi subito dalla mia gamba, portandosi una mano alla bocca, in quel gesto stupito e dispiaciuto. Poi si chinò incuriosita, mi guardò bene da vicino e poi, sottovoce, mi disse "Scusa, non volevo calpestarti!".

Avessi avuto la pelle l'avrei sfiorata.
Avessi avuto una bocca l'avrei baciata.
Avessi avuto un cuore l'avrei amata.

Desiderai una mano per toccarla e sentire il suo calore.
Desiderai un corpo per premerlo addosso al suo.
Desiderai un po' di voce per dirle quanto fosse bella.

Provai ad allungare una mano, provai ad alzarmi, ma non potevo, non riuscivo.
Riprovai di nuovo, ma come potevo?
Dopo qualche ora ancora provavo ad alzarmi, ma non ci riuscivo.
Ero solo un mucchio di ossa.

Allora accadde.
Guardai con le orbite in cielo e chiesi con tutta la forza che avevo di poterla toccare.
Lo chiesi con tutto me stesso, o quel poco che ne restava. E così accadde.
Improvvisamente sentii come una grande forza, potente. Un'energia che non sentivo da anni o che forse non avevo mai sentito. Una spinta ad alzarmi e una voce nella scatola cranica mezza vuota che rimbombava dicendomi di alzarmi.
Mi alzai e notai sbalordito che potevo muovermi. Potevo vedere, potevo sentire e potevo camminare e, dalla felicità, scoprii che potevo anche saltare. E allora cominciai a correre, a cercare quella bellissima ragazza che mi aveva considerato. Aveva considerato un mucchio d'ossa con amore e io la volevo stringere.

Cominciai a correre in giro dappertutto, correvo da ogni parte in cerca di quella ragazza di bianco vestita.
Ero così preso dal cercare il suo volto che non mi accorgevo che la gente, quando mi vedeva, fuggiva.
Corsi così tanto che venne notte e ancora non l'avevo trovata.
Mi fermai sotto un albero perché era troppo buio e non vedevo nulla.

E così mi parlò un gufo.

I gufi sono saggi, ma nessuno li sa ascoltare. Pensano siano solo uccelli. I più audaci li chiamano rapaci.
"Non troverai mai nessuno messo così come sei. Ti sei chiesto che effetto le faresti se ti vedesse così? Ti sei visto almeno?"
Mi guardai le mani, potevo contare le falangi una per una. Poi guardai indignato il gufo e risposi infastidito:
"Ora ho capito perché si dice "gufare!"... tu non credi nell'amore! L'amore vede oltre l'apparenza e oltre l'aspetto esteriore!"
Il gufo allora scese dall'albero e mi volò accanto, appollaiandosi sulla mia clavicola.
"Non è una questione di aspetto esteriore, amico mio! E' una questione di amore. Guardati, come ti sei ridotto.. Ti sei amato così poco che ti sei lasciato depredare di ogni cosa e ancora continui a non preoccuparti di chi sei, di cosa sei e di cos'hai da dare. Sei in cerca di amore, ma non ti ami. Non lo puoi ricevere, non lo vuoi ricevere, perciò non lo avrai!"

Tacqui e mi osservai. Come posso toccare questa donna?, pensai, non ho i polpastrelli e forse neanche la sentirei. Magari le graffierei la pelle. Come posso baciarla se non possiedo una bocca?
E come posso amarla se non possiedo cuore?
 
"Hai ragione gufo!" gli dissi "Troverò quello che mi è stato tolto e poi andrò da lei!"
"Sì ma..." il gufo provò a parlare ancora, ma io ero già corso via, e senza neanche tanto ringraziarlo perché non avevo tempo, dovevo trovare il mio corpo per darlo alla donna che amavo.
Cominciai andando da un mio vecchio amico. Questo possedeva un po' dei miei muscoli che gli avevo dato per giocare a calcio. Quadricipiti, polpacci, addominali e qualche pezzetto di gluteo e di dorsale. Stavo per rimettermi gli addominali quando pensai che forse dovevo partire dagli organi interni, per evitare di dover poi strapparmi gli strati superficiali una volta trovate le viscere.
La peggior cosa era rivedere mia madre, ma tutte le mie viscere le possedeva lei. Aveva lo stomaco che aveva rimpinguato per anni cercando di farmi ingrassare per non permettermi di riuscire a trovare una donna, cercando di farmi restare sempre con lei. Aveva il mio fegato che aveva fatto ingrossare a suon di cattiverie dette contro di me. Aveva i miei polmoni che aveva oppresso e contorto per anni, non lasciandomi i miei spazi. Aveva i miei intestini che aveva contribuito a far contorcere mettendomi ansia e paura per ogni cosa. Questi, quando avevo deciso di non essere più un uomo, glieli avevo lanciati addosso come si lanciano gli avanzi a un cane legato in giardino.
Suonai alla sua porta e lei mi aprì. Tesi la mano e le chiesi quello che era mio di diritto.
Lei si mise a ridere e, richiudendomi in faccia la porta, mi disse "Devi chiedermele col cuore!"
Era un problema, il mio cuore era ancora dalla mia ex fidanzata. Una donna che l'aveva strappato e messo in una teca di vetro e che ogni tanto si divertiva a punzecchiarlo e a tagliuzzarlo. Ma non era colpa sua. Ero io che glielo avevo consegnato, la responsabilità era mia e solo mia.
Suonai alla sua porta e mi aprì il mio migliore amico. Mi disse "Hey, come ti trovo male!" Non sapeva che io sapevo. Credo che lui e lei si frequentassero anche mentre ero ancora io il di lei fidanzato.
"Rivorrei il mio cuore!" le dissi quando si affacciò alla porta. Ma lei mi sorrise e mi disse "Davvero lo vuoi?".

"Certo che lo voglio!" esclamai convinto! E allora ecco che il mio cuore cominciò a pulsarmi in petto.
Mi grattai la calotta cranica e la ringraziai. In quel momento provai una bella sensazione nel vederli così, abbracciati davanti alla porta mentre io me ne andavo. Ero quasi felice per loro.

Che cosa strana.. Vabbè..

Tornai a bussare alla porta di mia madre, pretendendo quel che era mio di diritto.
"Me lo devi chiedere con amore!" mi disse stizzita. Infastidita da quel mio pretendere senza affetto.
Ma io la odiavo. Quando pensai che la odiavo, mi accorsi che la mia scatola cranica non era vuota come avevo sempre creduto.
Il cervello l'avevo sempre avuto. Non tutto, solo una parte. Quella sinistra.
E questa odiava  e pretendeva e serbava rancore per mia madre perché ricordava che lei mi aveva fatto del male, tanto male. E più chiedevo,  più lei mi snobbava e mi derideva e pretendeva amore. Sembrava ci godesse nel ricattarmi. Avrei voluto farle del male, ma sapevo che non potevo.

"Perché pretendi affetto?" le chiesi. "L'affetto non si può pretendere!" Pensai fra me e me che lei fosse davvero l'ultima persona a poter pretendere affetto da me. Fu in quel momento che mi resi conto di essere come lei. Una persona priva di amore che non riesce a donare ciò che crede di non aver ricevuto.
Mi ricordai che poco prima avevo provato amore per la mia ex e il mio amico e allora guardai mia madre e vidi una donna che voleva essere amata, ma non sapeva come lasciarsi amare.
Mi avvicinai, la abbracciai. Lei mi scacciò ed io camminai lontano da lei amandola e pregando che capisse che non la odiavo.
In quel momento mi rispuntarono polmoni, intestino, fegato e altri organi e viscere interni. Qualche muscolo, anche del volto e qua e là.

Ora sembravo una specie di zombie non morto, ma cominciavo ad avere un aspetto più umano. La maggior parte dei muscoli e dei tendini e di tutto quello che componeva la fisicità esterna del mio corpo, li deteneva mio padre. A lui avevo dato mani, braccia, gambe e tutto quello che avevo potuto dare per aiutarlo quando lui, a causa della sua malattia, era rimasto infermo a letto ed io avevo dovuto aiutarlo a non far fallire la sua attività. Ma tanto lavorai e senza ricevere mai un grazie. Lavoravo e non venivo gratificato. Mai.
Poco prima che lui morisse io, talmente ero affranto per la sua malattia e per come mi sentivo usato, lasciai tutto. Gli diedi gambe, braccia, occhi e naso ed ogni parte di me, e cominciai ad andarmene, deperendo giorno dopo giorno.
Lui morì ed io continuai ad odiarlo per non avermi mai ringraziato e mai amato.

Non mi aveva mai amato, mi aveva sempre e solo usato.

 Arrivai alla sua tomba ed era la prima volta che la vedevo. Ma ormai avevo capito l'antifona.
Mi inginocchiai e pregai. Pregai così tanto, piansi e lo perdonai. E quando mi accorsi che avevo gli occhi, era già da un po' che stavo piangendo. E quando mi asciugai le guance con le mani, era già un bel po' che avevo di nuovo le mani. E così quando mi alzai e sentii la terra umida sotto i miei piedi, era già un bel po' che avevo i piedi.
Cominciai a camminare e piano piano iniziò a riformarsi la pelle, i peli, i capelli.
Camminavo e ringraziavo Dio e il mio corpo tornava ad essere quello di un tempo.

Poi una donna urlò e allora mi accorsi di essere nudo ed iniziai a correre così forte come non avevo mai corso. Entrai in una lavanderia e presi qualche abito, contando di restituirlo.
Ormai ero pronto, dovevo solo trovarla. Mi pettinai, mi vestii bene, sedetti su una panchina con le mani unite ed attesi.
Dopo due giorni, però, ero ancora lì, per giunta affamato. Allora cominciai ad arrabbiarmi con Dio perché ero diventato un uomo, ma lui non aveva condotto da me la mia Eva. Mi alzai, un po' indispettito, e pensai che allora mi sarei arrangiato!
Cercai per quasi due settimane e alla fine la trovai, era in un negozio di dischi con un'amica.
Indossava ancora un abito bianco e aveva ancora i capelli color rame.
Mi avvicinai e le dissi "Ciao, sono lo scheletro che hai calpestato venti giorni fa, volevo solo dirti che sono innamorato di te, che voglio toccarti, baciarti e fare l'amore con te!"

Non potete capire cosa accadde. L'inaccadibile.

Cominciò ad urlare così forte che mi guardai subito le mani, credendo di essere ritornato uno scheletro!
"Sei uno sporco, volgare, impertinente idiota!" mi urlò. Poi se ne andò stizzita pronunciando queste parole:

Eri più umano quando eri uno scheletro!

Ragazzi lo disse. Lo disse davvero!

Caddi a terra in ginocchio, iniziando a chiedermi cosa avessi di sbagliato. Cosa avrei dovuto fare che non avevo fatto o cosa avevo fatto che non avrei dovuto fare? Ero disperato, non potete capire. Non potete. Era come se mi avessero tirato addosso il mondo ed io vi fossi rimasto incastrato sotto.
Pazzo, ero impazzito. Corsi per qualche chilometro ed infine, lontano dalla città, lo feci. Cominciai a togliermi tutto e a tornare scheletro. Aveva detto che mi preferiva scheletro e allora sarei tornato scheletro.
Mi spolpai fino all'osso e tornai da lei. Ma accadde esattamente quello che temevo.
Non solo urlò lei, ma anche tutta la gente per strada che ci stava intorno.
"Vattene, sei orribile!" mi urlò.
Fu la sensazione più brutta della mia vita. Più brutta perfino di quando mi regalarono l'uniforme di San Francesco per carnevale, con un cerbiatto finto attaccato alla tonaca, e anche più brutto del momento in cui il mio compagno di banco, vestito da Darth Fener con una spada laser più grande di lui, mi minacciò davanti a tutti i genitori di decapitarmi il cerbiatto, stimolando una fragorosa risata fra tutti i genitori accorsi per la festa di carnevale.
Cosa dovevo fare? Me ne andai.
Desiderai la morte, ma mi resi presto conto che non potevo. Non potevo decidere di morire.

"Forse il tuo percorso non è giunto al termine!"
Era la voce del gufo.

Ero finito di nuovo sotto l'albero di quello stupido gufo.
"Lasciami in pace! Mi avevi detto che non avrei mai trovato nessuno perché ero impresentabile! Sono diventato bellissimo e lei non mi ha voluto. Le ho confessato il mio amore e lei ha urlato!"

Il gufo mi si appollaiò con una zampa sull'ulna e una sul radio. "Vedi.." disse "..per amare non basta un bellissimo corpo, né una bellissima mente, né la schiettezza, né i soldi..."
"E allora cosa serve?" chiesi.
"Serve amare sé stessi. Tu ti sei dato tanto da fare, hai fatto delle cose bellissime, invidiabili. Hai amato e perdonato i tuoi genitori, amici, fidanzata, sei diventato bello, ma poi cos'è accaduto? E' bastato un rifiuto per farti prendere tutto quello che avevi faticato a costruire e fartelo buttare nella spazzatura come fossero avanzi di una cena andata male! Ora dimmi... per chi l'hai fatto? L'hai fatto per te o per lei?"
L'avevo fatto per lei.
"L'hai fatto per qualcosa che non sei tu. Quello non è amore. Quello era solo desiderio di avere, di ottenere, di essere amato, di colmare un vuoto, di essere migliore, ma per qualcun altro. Di tuo, di amore vero, di sentimento per sé stessi, lì, non c'era nulla. Chiamalo come vuoi, arrivismo, vuoto interiore da riempire. E cos'hai ottenuto? Dimmelo tu!"
Che cosa avevo ottenuto? In tutta la vita e ciclicamente, che cosa avevo fatto?
Avevo ottenuto che ogni cosa costruita era stata edificata su qualcosa o qualcun altro e questi, andandosene, si erano portati via tutto di me.
"Ma chi ha consegnato loro quei pezzi di te?"
Il gufo mi leggeva il pensiero.
"Io!" risposi.
"Riesci a capire che hai fatto tutto tu?" mi domandò.
In realtà faticavo un po' ad accettarlo, ma era vero ed abbastanza evidente, così evidente da non poter essere negato alla ragione.
"Se ti manca una gamba cosa fai? Ti appoggi al primo che passa o provi a costruirtene una tua?"
Ci pensai qualche istante.
Mi ero sempre appoggiato. Sempre delegato.
Sempre rifiutate le colpe. Era più semplice affidare il proprio destino a qualcuno per poi potergli dare tutte le colpe quando le cose non andavano come volevo. Avevo vissuto tutta la vita in quel modo, ma d'improvviso mi resi conto di una cosa fondamentale. Capii che quello che era stato fino ad un attimo prima, non era necessariamente quello che c'era adesso, e che adesso io potevo essere indipendente. Potevo prendere in mano la mia vita e farne qualcosa. Qualsiasi cosa, ma che fosse mia.

Risi rumorosamente ed abbracciai il mio amico!

"Se mi manca una gamba, caro gufo, sai che ti dico? Che me la faccio ricrescere e poi ci ballo sopra!"

Poi, già che c'ero, mi feci spuntare temporaneamente un paio d'ali e feci un giro col mio amico.
Il mondo era davvero bello, non me n'ero mai accorto fino a quel momento.


martedì 25 febbraio 2014

Rachel - Ep. 5

di Daniela Pasiphae Coin

<< Episodio 1

Rachel amava stare sola ma non era vero.
Lei lo diceva in giro, lo diceva anche a se stessa, ma non era affatto vero.
Lei soffriva profondamente di solitudine però allo stesso tempo questa solitudine le serviva per giustificare la sua sofferenza, anche se questa non era dovuta allo star sola.


Il male di vivere di Rachel, come di ognuno di noi, era una qualità innata.
Il saperla definire una qualità era comunque un privilegio di pochi. Lukas, ad esempio, la definiva una qualità, anche se Rachel ancora non sapeva di avere quello strazio dell'anima perché da sempre aveva preferito dare la colpa alle cose, credendo infine che questa sua sofferenza fosse causata dall'esterno, dagli eventi.
La colpa che preferiva dare di più era alla solitudine perché lei, fin da piccola, era sempre stata una bambina molto sola. Cresciuta in una famiglia molto ricca, con cui non parlava da anni, e per di più figlia unica, aveva optato per la sofferenza da solitudine. Un po', sfruttando l'anaffettività dei genitori, le era anche sempre piaciuto ritenersi una ragazza trascurata e poco amata.

Una volta trovato il colpevole della sua sofferenza, aveva passato tutta la vita a sostenere queste tesi, cercando il più possibile di non lasciarsi amare e cercando di essere lasciata sola. Sempre molto stimata, forse più temuta che amata, Rachel era diventata una donna che professionalmente poteva dirsi invidiabile ma che attorno a sé creava il vuoto siderale.

Atterrò a Melbourne a mezzogiorno e si fece subito portare, senza dare alcun preavviso, a casa dei genitori.
I coniugi Gale (Noir era il nome d'arte di Rachel e non il suo vero cognome) erano due signori sulla cinquantina, amanti della natura, che, dopo aver avviato e lanciato un impero nel settore della moda, creando abiti in fibra naturale di alta moda, avevano deciso di ritirarsi in una tenuta fuori Melbourne, gestendo da lì i loro affari e viaggiando comunque molto per controllare e gestire i loro affari nel mondo.

Arrivò alla tenuta che era l'una passata. La villa, immersa nel verde, si presentava fiorente e più accogliente che mai. Ad accoglierli arrivarono i due dobermann di guardia alla casa che Rachel non aveva mai visto. Mancava da casa da anni e in quella villa ci aveva vissuto solo per un paio d'anni.
Non osando scendere dal taxi, si trattenne fino a che non le venne incontro qualcuno.
Arrivò un giovane a cavallo, mal vestito, con l'aria del bracciante. Il cappello, come fosse un cowboy, e il sorriso smagliante di chi non vede l'ora di incontrare qualcuno.
Rachel abbassò il finestrino.
"Buongiorno!"
Il giovale la salutò chiedendole chi fosse.
"Sono la figlia dei signori Gale!" disse in tono sostenuto, pretendendo in quel modo rispetto.
"Io non l'ho mai vista!" disse sprezzante, quasi avesse davanti un'imbrogliona "I signori Gale rientreranno fra una settimana!" Poi cercò di tenere fermo il cavallo che si era agitato dopo che il taxista era sceso dall'auto per fumare una sigaretta, fregandosene dei cani. Appena il cavallo si calmò, riprese "Se è la figlia dei Gale può accomodarsi in casa, troverà Justine ad accoglierla!"
Justine se la ricordava, era la ragazza che i suoi genitori avevano preso come governante. Il marito lavorava in Cina e tornava solo due mesi l'anno e loro tenevano la ragazza quasi come fosse una figlia.

Ignorando i cani, che la seguirono con aria sospetta, si accomodò sotto il portico, davanti alla porta di casa, accompagnata dal taxista che le portava i bagagli. Pagò il gentile signore e suonò il campanello, sempre osservata dai cani che, pensò, non erano un gran ché come cani da guardia.
Le aprì Justine che le saltò subito al collo, felicissima di vederla.
"Da quanto tempo! Ma che fine avevi fatto?"
Rachel si liberò velocemente da quel buonismo quasi fastidioso della cara Justine, spigandole che il lavoro in città era piuttosto impegnativo e che non aveva potuto viaggiare per svago.
"Inoltre, cara Justine, lo sai bene che coi miei non scorre buon sangue! Ma dimmi, come stanno? E quando rientreranno?"
"Sono alla fiera di Berlino, rientreranno la prossima settimana" disse dispiaciuta, come se stesse annunciando la loro dipartita. "Oh ma tu ti puoi fermare, Anzi, insisto!"
Rachel, che adorava quella casa e soprattutto l'averla a disposizione tutta per sé per una settimana, non se lo fece ripetere due volte e si sistemò nella sua camera, svuotando le valige e riponendo tutto il suo guardaroba negli armadi e nei cassetti.
Poi si infilò il costume e si precipitò a fare una nuotata in piscina, seguita da una lunghissima passeggiata a cavallo fino all'ora di cena.

"Si tratterrà molto?" le chiese lo stalliere, mentre Rachel ripuliva il cavallo dopo la passeggiata. Lei non rispose e lo guardò come a chiedergli un minimo di educazione.
"Lasci pure, ci penso io al cavallo!"
Lei gli diede un'altra occhiataccia che aveva l'aria di dire "Da lei non voglio nessun aiuto, mi so arrangiare!" e continuò a strigliare la bestia.
"Io mi chiamo Cristopher" le disse, allungando la mano dopo essersela pulita sui pantaloni.
Rachel allora sorrise e si presentò.
"Mi perdoni per prima" continuò lui "è che non l'avevo mai vista, credevo che questa famosa figlia dei Gale fosse ormai una favola!"
"Le sembrava impossibile" continuò lei "che una figlia mancasse da casa per così tanti anni?"
"Beh un po' sì, ma non sono cose che mi riguardano..."
Rachel gli sorrise.
"La signora Gale non è mia madre" si confessò, con lo stupore del povero Cris che non seppe che dire.
"Non volevo farmi gli affari suoi, signora..."
Rachel rise. "Ma quale signora!? Ma quanti anni hai?"
"Ne ho trentasette, signora!"
"Allora ti prego smettila di chiamarmi signora che sono più giovane di te!"
Cristopher sorrise imbarazzato, la salutò e se ne tornò alla sua depandance.

L'indomani Rachel lo trascorse tra piscina, cavalli e lunghe passeggiate coi cani, che ormai erano diventati suoi amici. Aveva anche appreso che si chiamavano Aiace e Antigone. Deviazioni del padre, amante di Sofocle.
In quanto a Cris, sebbene Rachele cercasse di evitarlo, capitava molto spesso che si incontrassero nelle stalle o per i vialetti della proprietà, o che lei lo vedesse indaffarato a sistemare le bestie, e notava che lui, nonostante la guardasse come se fosse fatta d'oro, cercava di evitarla il più possibile e questo le dava un po' sui nervi, abituata com'era ad avere tutte le attenzioni degli uomini per sé.

All'alba del quinto giorno, Rachel si alzò con una strana sensazione, accese il telefono e le arrivò un messaggio di Lukas.
"Ci vediamo stasera al Four Season, alle 9"
Lì per lì fece per rispondergli ma poi pensò che avrebbe potuto perfino non rispondergli e non presentarsi.
Per un attimo le prese il terrore perché pensò che avrebbe potuto perderlo ma alla fine, per quietare il suo ego, pensò che aveva la scusante che lui non si era fatto più sentire e che, nelle terre sperdute dell'Australia, il telefono poteva non essere raggiungibile.
Optò per fare la vigliacca e non rispose. Provò perfino un sottile piacere nel poter, per cause di forza maggiore, rifiutare un invito simile, al Four Season, ed uscirne perfino pulita.
A Rachel non importava se quello che faceva era corretto, a lei bastava che agli occhi degli altri lo sembrasse.

Quel mattino chiese ed ottenne una cavalcata con Cris, completa di picnic sulla collina e rientro al tramonto.



mercoledì 12 febbraio 2014

Rachel - Ep. 4

di Daniela Pasiphae Coin

<< Episodio 1

Uscirono dal locale.
Prima uscì Rachel lasciando, come al solito, che a saldare il conto fosse Lukas.
Rachel era sempre stata abituata ad uscire con uomini che le offrivano la cena e non si era mai posta il problema se questo fosse giusto, normale, apprezzabile o disdicevole.

"Signorina!" si sentì chiamare da una voce sconosciuta mentre, a pochi passi dal locale, cercava di fare amicizia con un cagnolino nel giardino di una villetta adiacente.
Si voltò, era un cameriere del locale. Gli si avvicinò con fare imbarazzato.
"Mi scusi signora.." la apostrofò il cameriere senza riuscire a guardarla "..dovrebbe cortesemente saldare la sua parte..."
Rachel rimase di stucco. Ci mise qualche secondo per elaborare quella strana richiesta. Poi si sentì estremamente offesa e subito andò su tutte le furie, seppur non dandolo a vedere.
"L'uomo che era con me? Non ha pagato?" domandò stupita.
"Solo la sua parte, signora.." rispose umilmente il ragazzo.
"E si può sapere dove diavolo è?!"
Il ragazzo si guardò intorno.
"L'ho visto uscire dal locale, mi ha detto che l'avrei trovata qui fuori! Non so dove sia andato.."
Rientrarono insieme mentre il povero ragazzo, ricciolino e con qualche lentiggine sulle guance, spiegava a Rachel che non voleva metterla in imbarazzo e che se fosse stato per lui avrebbe chiuso un occhio ma, non essendo il capo, non poteva farlo.

Rachel saldò quei pochi spiccioli della sua cena.
Incredibile, pensò uscendo. Prese subito il telefono dalla borsa per chiamare Lukas e dirgliene quattro e trovò un suo messaggio.
Leggi.
Lukas
Non dare mai nulla per scontato. Ti ricontatterò io.

Se avesse potuto l'avrebbe malmenato, offeso. Aveva ferito il suo ego e quello che la faceva più incazzare era che probabilmente lui si stava anche divertendo.
Pensò di richiamarlo ma il timore superava la rabbia. Rachel temeva e rispettava quell'uomo di cui non sapeva assolutamente nulla e non era sufficientemente forte per prendere in mano la situazione e reagire.
In qualche modo, anche se non voleva ammetterlo, quell'uomo le dava sicurezza. Le faceva compagnia. Le dava un motivo per essere ogni giorno quella che era.

Decise di tornare a piedi. Ci avrebbe messo una buona mezz'ora ma non faceva eccessivamente freddo e le andava di camminare. Percorse a lunghe falcate sui suoi tacchi 12 i viali umidi di ben quattro quartieri.
Di strada pensò a come aveva conosciuto Lukas.

Era uscita una sera a cena, da sola. Rachel non aveva amici, non li aveva mai voluti. Aveva qualche conoscente con cui a volte condivideva qualche serata, poche chiacchiere e per lo più eventi mondani.
Quella sera, desiderosa di stare sola, dopo una giornata trascorsa a litigare con la madre che era passata in città per sbrigare alcune faccende personali, uscì presto e si recò al suo ristorante preferito, a pochi passi da casa. Un posto molto piccolo e riservato ma che a quell'ora era sempre vuoto. Sedette senza badare a nulla che non fosse il menù. Ordinò carpaccio di polpo e patate. In quel locale facevano delle patatine in umido che erano come il burro. Dolci e delicate, con una spolverata di prezzemolo.
Di lì a poco, mentre osservava in agenda i suoi impegni, entrò un uomo, alto e distinto, col segno della barba di un paio di giorni, vestito sobrio. Una giacca in pelle nera, pantaloni scuri, un maglioncino blu, scarponcini neri.
Rachel era una donna molto attraente, abituata a farsi guardare da tutti, quasi infastidita da questo continuo ricevere occhiate e proposte. Ma quel giorno, quell'uomo, si comportò in modo diverso. Entrò nel locale dando una rapida occhiata ma senza soffermarsi su di lei. Fece un cenno al cameriere indicandogli dove si sarebbe seduto e sedette lontano dalla ragazza, da solo.
Rachel prese ad osservarlo incuriosita e senza nemmeno tanto riserbo in quanto lui non guardava lei. Le si era messo di lato e guardava dritto davanti a sé rivolto verso il muro. Nessun telefono in mano. No auricolari. Niente musica. Niente menù. Guardava solo davanti a sé.
Avrà tanto a cui pensare.. convenne Rachel.
Lo osservò per tutta la cena, anche dopo che lei ebbe finito. Ordinò perfino il dolce pur di rimanere nel locale con una scusa.
Lo osservò mangiare un piatto di lasagne e bere del vino rosso. Infine un caffè. Il tutto consumato lentamente, con cura e pazienza. Masticando molto accuratamente, tanto che Rachel si perse in quel movimento di mandibola.
Quell'uomo misterioso, oltre che avere l'ombra della barba ad evidenziargli i contorni del volto, portava i capelli un po' lunghi, senza una direzione precisa. Erano scuri, castano scuro, lucidi, senza l'ombra di un capello bianco. L'altezza era forse intorno al metro e ottantacinque, corporatura normale, buon fisico atletico.
Rachel si interrogò per quasi un'ora sulla possibilità e l'eventuale modalità con cui avrebbe potuto parlargli ma non le venne in mente nulla. Alla fine, arresa, decise di lasciare il suo numero alla figlia del titolare del locale che serviva ai tavoli, pregandola di consegnarlo all'uomo misterioso.
Anziché dargli il suo bigliettino da visita, scrisse il numero su un pezzo di carta. Poi pagò alla cassa e uscì dal locale mantenendo un portamento nobile, controllando con la coda dell'occhio se per caso lui non si voltasse a guardarla ma niente.

Attese 23 giorni prima di ricevere una sua chiamata, tornando nel frattempo di tanto in tanto al locale, domandando alla ragazza se avesse consegnato il biglietto e chiedendosi se per caso non avesse scritto male il numero. Tornò varie volte in quei 23 giorni a pranzo e a cena lì, domandando anche se per caso lui non si fosse fatto rivedere, se l'avessero visto prima di quel giorno, ma sempre senza cavarne notizia alcuna.

Quando la chiamò le disse solo "Ciao Rachel, sono Lukas il ragazzo del ristorante! Vorrei vederti stasera. Ti va bene alle nove al Milk?"
Lei rispose di sì e poi andò all'appuntamento.
Quella sera lui parlò molto poco e lasciò la conversazione in mano a Rachel. Dopo cena la accompagnò a casa, le domandò se poteva salire. La scopò sul divano senza troppi preliminari e se ne andò subito dopo.

Di episodi simili se ne verificarono, nei due mesi successivi, altri cinque, fino a quella sera in cui, come una svolta, invece che andare a casa di lei a cogliere la margherita, Lukas se ne andò e sparì dalla vita di Rachel per quasi due mesi.
Lei non lo cercò, orgogliosa com'era.
E così si convinse in fretta di aver avuto a che fare con uno stupido cafone e, lasciate le redini per tre settimane a José, partì per l'Australia dove abitavano i genitori.


lunedì 10 febbraio 2014

Rachel - Ep. 3

di Daniela Pasiphae Coin

<< Episodio 1
<< Episodio 2

Al Blue Cafè, Rachel ci era stata solo una volta, tanti anni prima. Frequentava un ragazzo di nome Andrea, italiano, muscoloso e non molto intelligente. Parlava male la sua lingua ma a Rachel piaceva perché, nonostante il suo aspetto mascolino, era dolce e la faceva ridere. Non durò molto perché Rachel è sempre stata una donna che, alla fine, non vuole essere davvero felice, serena e spensierata. Vuole avere dei problemi di cui occuparsi, vuole attenzioni. Vuole poter incolpare il mondo della sua infelicità o forse è proprio questo incessante incolpare a causarle tristezza ed insoddisfazione? Poco importa in fondo.

Entrò nel locale allungando un passo deciso, si guardò intorno ma non lo vide. Un secondo più tardi e si sentì sussurrare all'orecchio.
"Buonasera"
Si voltò di scatto. Era in piedi dietro di lei, quasi come l'avesse seguita.
Accennò un sorriso a labbra tese e si lasciò accompagnare a sedere.
Indossava un elegantissimo abito da sera, rigorosamente nero, con qualche inserto in strass Swarovski, disegnato da lei. Uno degli abiti più venduti e uno tra i più costosi. Il trucco, leggero, le esaltava gli occhi e sulle labbra solo un filo di rossetto color Ferrari.
Gli occhi di Rachel erano blu, come il cafè.

"Come stai?" le domandò guardandola attentamente mentre lei, per lenire l'imbarazzo, sfogliava nervosamente il menù.
Senza neanche alzare gli occhi gli rispose. "Molto bene, ti ringrazio!"
Lukas sorrise e prese ad osservare il menù con attenzione.

Rachel ordinò una crepe salata con salmone e formaggio mentre Lukas chiese bistecca e patate al forno. Dopo aver ordinato, Rachel si alzò elegantemente dal tavolo per recarsi alla toilet.
Lukas rimase solo al tavolo. Dapprima osservò la sinuosa figura allontanarsi dal tavolo, poi si guardò le mani e pensò fra sé che aveva davvero delle bellissime mani.
Rachel tornò dopo pochi minuti e provò un eterno imbarazzo nel percorrere la strada che la separava dal tavolo in quanto Lukas la osservò intensamente e non cessò quello sguardo così penetrante nemmeno quando sedette al tavolo.
Gli sorrise. "Perché mi guardi così?" gli domandò.
"Sono attento a te" rispose. "Magari sei abituata a frequentare persone che quando sono con te guardano il telefono o l'agenda, o che, invece di guardarti negli occhi, guardano dietro di te. O magari ti guardano la bocca mentre parli e pensano a cosa potrebbero dire per riportare l'attenzione su di sé e cercano abilmente di trovare il momento opportuno per intervenire nella tua conversazione ma senza sembrare che ti abbiano interrotta!"
Rachel pensò a José. Lui si comportava così con lei. Non era attento. Non era con lei.

"Sai Rachel" continuò "quasi tutte le persone che incontri fingono di interessarsi a te, ti chiedono come stai, ti fanno mille complimenti, ti sorridono, ti chiedono di uscire, ma a nessuna di queste persone interessa minimamente chi sei e come stai. A tutti interessa cosa puoi fare o essere tu per loro. Come puoi essere utile al loro ego, come puoi farli sentire meglio con la tua approvazione, con un tuo sorriso o con la tua compagnia."
A Rachel si spense la luce negli occhi, quella che la faceva sembrare a capo del mondo. Assunse un'aria spaventata, lo sguardo perso nel vuoto, forse ad immaginare tutte le volte in cui aveva creduto di essere importante per qualcuno, amata ed apprezzata, mentre in realtà faceva solo parte di un piano egoistico di qualcuno che aveva bisogno di sentirsi meglio.
"Siamo tutti profondamente soli, Rachel. Tu la senti la solitudine?"
Rachel tornò a guardare Lukas con aria attenta. Poi annuì.
"E la ritieni una cosa brutta?"
Rachel ci pensò, guardò in alto a destra e poi rispose.
"Penso di sì".
Lukas sorrise guardando dietro i capelli neri della ragazza. Il cameriere stava arrivando con le loro portate.
Mentre serviva al tavolo, lui continuò.
"Siamo tutti infinitamente soli. Non c'è alternativa alla solitudine. Prima lo si comprende e meglio si sta."
Prese il tovagliolo, lo dispiegò e se lo adagiò con cura sulle cosce. Lo stesso fece Rachel.
"Tutte le persone che vedi, te compresa, passano la vita a distrarsi. Farebbero qualunque cosa pur di non stare da soli con la loro solitudine. Ascoltarla. Sentirla. Capirla. E, infine, accettarla come parte dell'esistenza. La sola comprensione di questo fenomeno farebbe cessare la paura che si ha di esso, farebbe cessare l'insicurezza, la ricerca di protezione, e la violenza che attuiamo in ogni momento per cercare di possedere qualcosa che ci possa riempire."
Rachel tagliò la sua crepe e ne mangiò un boccone.
Lukas comprese che forse Rachel non era ancora pronta per quel discorso così cessò di predicare e, affondata la forchetta nella carne, ne tagliò un boccone ed iniziò la sua cena in silenzio.


lunedì 3 febbraio 2014

Rachel - Ep. 2

di Daniela Pasiphae Coin


<< Episodio 1

Si alzò, Rachel, a fatica. Dormiva sempre male da ormai qualche mese.
Quando si trovò in cucina, per poco non rischiò di cadere, scivolando goffamente sul pavimento bagnato.

Marica, sua falsa amica e donna delle pulizie, stava appunto lavando il pavimento e, senza nemmeno tanto dispiacersi per il quasi causato incidente, tornò alle sue faccende sussurrando un mezzo ciao all'amica nuda nella vestaglia in seta bianca dai motivi orientali. Non appena Rachel girò l'angolo e si infilò nel bagno, aggiunse urlando "C'è il caffè!", poi attese senza udire risposta alcuna ed infine aggiunse, sempre urlando: "...e anche i krapfen!", ma dal bagno ancora nulla.

Rachel iniziò la sua quotidiana preparazione per farsi amare che consisteva in una calda doccia di mezz'ora condita di svariati shampoo e balsamo per dei capelli da favola, creme e cremine profumate post doccia, asciugatura capelli e piega alla Valentina di Crepax. E ancora svariati minuti per il trucco, mascara, matita nera e phard, con un velo di rossetto color Ferrari.

Rachel vestiva sempre e solo di nero. Sembrava uscita da Matrix.
Abiti succinti e provocanti, stivali alti, lunghi cappotti. Lo sguardo vuoto di chi ha perduto qualcosa.

Quando finalmente, dopo più di un'ora, ricomparve in cucina, Marica era già uscita per la spesa.
"Brutta bastarda" pensò "non mi ha nemmeno chiesto cosa doveva prendere!"
Infilò la mano nella borsetta, nera, e ne trasse il telefono. Scrisse: assorbenti, gelati al cioccolato bianco, fiori, e il resto che sai. Inviò. Ributtò il telefono nella borsa, ma lo riprese all'istante notando un messaggio proprio dall'uomo della sera prima.

Lukas. Leggi. "Domani alle 21 al Café Blu"
Si era promessa, per l'ennesima volta, di non accettare i suoi inviti. Ma succedeva sempre la stessa cosa ormai da un mese. Lui le mandava un sms col luogo e l'orario di dove si sarebbero incontrati, mangiavano o bevevano qualcosa trascinando una conversazione minimale quasi come fossero una coppia che ha appena litigato, poi lui andava da lei, facevano sesso, si rivestiva e se ne andava.
Non la chiamava mai, non le chiedeva mai come stava, non era mai gentile come le usanze vorrebbero e non faceva mai l'amore con lei. Eppure la voleva vedere due volte a settimana ormai da due mesi.

Come al solito non gli rispose e come al solito decise che stavolta non avrebbe ceduto.

Quel mattino fece il giro usuale delle sue tre boutique in centro, invitò a pranzo José, il responsabile del suo più grande negozio e si concesse il lusso di essere la donna più desiderata della città.

José, elegantissimo messicano trentenne, da cinque anni direttore della boutique "Luxury Noir" di proprietà di Rachel Noir, aveva lunghissimi capelli neri raccolti in minuscole treccine afro, il colorito olivastro, ed era uno degli uomini più sexy che Rachel avesse mai conosciuto. Ciò nonostante tra loro non c'era mai stato alcun contatto fisico. Si divertivano così, a flirtare e a provocarsi in modo implicito ma senza andare oltre.

Quel giorno però Rachel avvertì una fortissima spinta che quasi la obbligava ad avere un contatto con lui. Non era desiderio sessuale ma solo.. voglia di un abbraccio e di qualcuno su cui contare.

Improvvisamente si rese conto che la sola persona che avrebbe potuto esserle amica era José che in realtà, con ogni probabilità, le era amico solo nella speranza di finire prima o poi a letto con lei, suo capo.
Questo la riempì di profonda tristezza e per alcuni minuti seguitò ad infilarsi in bocca patatine fritte, meccanicamente, una dopo l'altra, con lo sguardo completamente perso nel vuoto, seduta di fronte all'uomo con le treccine, elegantemente di nero vestito, che controllava le sue email sul tablet.
Lui non si accorse di nulla. Rachel ritornò in sé nel giro di pochi istanti e riprese la sua normale attività di pensiero che consisteva nel chiedersi cosa fare tutto il giorno per impiegare il tempo.
Sì ma impiegare il tempo in attesa di cosa?

Lei credeva di stare attendendo l'indomani sera per non andare all'appuntamento ma in realtà continuava a pensare a come si sarebbe vestita. Era come se la sua ragionevolezza le dicesse di non andare e il suo inconscio volesse così tanto rivedere quell'uomo da bombardarle la mente con paranoie femminili su abiti, trucco, e frasi convenzionali da dire.

Passò la giornata girovagando in centro senza meta. Cercava qualcosa ma non sapeva cosa.
Acquistò un runner per il tavolo del soggiorno in bamboo con inserti in seta, si rifece le unghie, due ore al centro benessere fra sauna e massaggi, un sacchetto pieno di viveri al takeaway cinese da consumare a casa, a gambe incrociate sul divano, guardando Robin Hood con Russel Crowe.

Marica le aveva riempito il frigo ma lei preferiva la comodità. Non le piaceva cucinare.
Prima di andare a letto lasciò un biglietto a Marica con le indicazioni per l'indomani, chiedendole di preparare il pranzo a suo piacimento con quello che c'era nel frigo.

Si stese a letto e cercò di chiedersi se era felice ma non fece in tempo. Il sonno sopraggiunse nel momento in cui provò a darsi una risposta.



sabato 18 gennaio 2014

Rachel - Ep. 1

di Daniela Pasiphae Coin



"Che cosa vuoi da me?" chiese lui.
"Vorrei che tu mi amassi.." rispose lei, mordendosi il labbro inferiore, quasi prevedesse la reazione dell'uomo che aveva davanti.
"Non accadrà" rispose lui, rivestendosi. Si infilava i calzini di lana, tenendo stretta fra le labbra una sigaretta, senza curarsi della richiesta di lei, fatta qualche secondo prima, di non fumare dentro casa sua.

"E quindi" attaccò lei con voce grave e tremante "scommetto che nemmeno mi chiamerai, non è vero?"
Ma lui non rispose. Finiva di indossare il calzino sinistro, chiedendosi a voce alta "Chissà perché si inizia sempre dal destro, ma siamo così condizionati?"
La ragazza, sbigottita, domandò "Come hai detto?"
E lui si mise a ridacchiare fra sé, scatenando nella fanciulla ogni tipo di fastidio ed ira.
"Allora dillo che non te ne fotte un cazzo di me!" urlò quindi.
La voce del suo amante, calda e pacata, rispose con aria innocente "Perché mai dovrei dirti una cosa simile?"
Lei non sapeva davvero cos'altro dire, perciò non disse nulla.
"Me ne frega di te" riattaccò lui "molto più di quanto freghi a te stessa di te!"

Infilò il cappotto, afferrò la maniglia, le sorrise ed uscì.

Rachel strinse i denti e decise che non avrebbe versato una sola lacrima. Non ne valeva la pena.
Decise anche che lui era un idiota, un egoista, un insensibile, uno sfruttatore, e decise anche, per l'ennesima volta, che non l'avrebbe mai più chiamato. Anche stavolta, come le altre, era davvero la sua decisione definitiva.