martedì 30 novembre 2010

Sulla Tristezza e sulla Morte

di Daniela Pasiphae Coin
tratto da Noraelle To Mars



Parlarono ore,  tutta la sera. Mangiarono in vetrina, guardando i passanti e un angolo di Londra. Qualcosa di carino, con tante luci. Di fronte, un piccolo bar pullulava di giovani ragazzi che si divertivano bevendo cocktail e discutendo scherzosamente circa qualche partita di calcio. Dalla vetrina si poteva udire benissimo quello che dicevano ma Nora non ci faceva proprio caso.
Jean, allo stesso modo, studiava la gioia di quei ragazzi che, con ogni probabilità, di problemi ne avevano anche loro. Magari in famiglia. Ma si stavano divertendo e si divertivano davvero. Perché, in fondo, la tristezza non è che uno stato indotto dalla nostra psiche. E, come tale, vive su un determinato piano e, questo piano, può cambiare. Può aggravarsi ma può anche venire rimosso. Passare nel dimenticatoio. Perché la durevolezza di certe sensazioni è dannosa e spesso conduce a vie senza uscita. E per cosa? Solo per una mera convinzione. Un’imposizione della nostra mente che ci dice che, per convenzione, bisogna disperarsi per la morte di una persona cara. E che poi, cos’è, se non egoismo?
- E’ egoismo.
- Perché? – Parli senza sapere cosa si prova.
- Ti ricordo che ho da poco perso i miei genitori.
Perduto.
Non li ho perduti. Sono morti.
- E’ egoismo per il semplice fatto che mancano a te. A loro tu non manchi. Perché, o hanno cessato di esistere, oppure sono in un posto dove lo stare male, la sofferenza, non è concessa. Una dimensione diversa, dove si comprende. Dove non esistono ragionamenti similari a quelli che noi produciamo. Esiste solo equilibrio fra tutte le cose. E gioia e rispetto.
Canti e ... e amore.
Tornò a guardare fuori, quel gruppetto di giovani si era riunito e stava chiacchierando in toni più contenuti.



Quando giudici autonominati sentenziano

di Rocco Bonelli



Nella città dell'urlo la targa "comunità - alloggio" attendeva il mio lavoro.
La mia opera era una mano protesa a lenire, consolare, a compire ciò che i "cari" non avrebbero fatto mai.
Tronchi umani, sciancati, gli occhi filigranati, i matti si confidavano, mi cercavano, ero l'ala per volare verso un po di pace.
Chi cantò la mia impresa?!
Chi pagò il mio sudore?!
Nessuno.
Dei buoni dirigenti avrebbero compreso anche i rari momenti di stizza e di ribellione.
Ero carne anch'io.
Ero mortale anch'io.
Potevo essere preda anch'io.
Impaurito dalla mia stessa voce e dal trillo degli uccelli sui freddi fili telefonici, ero teso, facevo schifo, mi sentivo male.
Gli uccelli impazzirono e caddero nell'aria rotta.
Aironi intrappolati, peciose civette, simboli di ramarri al trotto, uccelli boreali si tuffavano e morivano nelle risaie rivedendo nel fatale capofitto tutte le chiare memorie della vita.
"E' strano sentirsi ladro" pensai " E aver rimediato solo un buco in fondo al cuore."
Allora i dottori della legge e i farisei covocarono il sinedrio e dissero: "Che facciamo? Costui si è infiammato nella sua libidine, commettendo cose turpi, e sconvenienti, profanando questo luogo sacro.
Per tanto riceverà in se stesso la degna retribuzione del suo traviamento!"
Come un pierrot da pantomima castrai il disastro con strane risate tristi e gridai:
"Guai a voi, ipocriti!
Guai!
Per salvare le vostre anime da circo inghiottite le ostie immaginarie della rettitudine!
Ipocriti!
Maestri del nulla!
Che filtrate il moscerino ed inghiottite un cammello!
Guide cieche!
Vi prostrate davanti alle minuzie del diritto e calpestate il cuore della legge: giustizia, pietà e fedeltà!
La vostra è divenuta la casa della desolazione, la casa della lucertola e del ragno!"
-"Basta così, piccola merda!
Oggi stesso vogliamo vedere le tue dimissioni sul tavolo altrimenti faremo intervenire i carabinieri!"
Scommetto che adesso vi chiederete come mai mi hanno trattato in quel modo.
Presto detto.
Le donne che lavorano sono spesso le migliori e si adattano con naturalezza.
Con una di loro amoreggiai nei momenti di riposo; all'inizio non sembrava molto diversa da una scimmia, ma poi, grazie al mio spirito di osservazione, capii che era viva e reale come me e mi innamorai di lei.
Pisciando nel water le notti sfrecciavano accanto a quella macchina da fottere.
Tiravo l'acqua, rimettevo il pene nel suo quartier generale e dal bagno tornavo in quella stanza.
Lei si rotolava sulla scrivania e rideva mentre io mi fermavo sulla porta a chiedermi come me la sarei cavata con quella ninfomane.
Così mi toglievo i jeans e li buttavo sopra il pc della nostra direttrice, con una lucetta blu nell'angolo a fare da atmosfera.
"Se me lo strofini su questa bella passerina diventa sempre più duro."
Poi si faceva scorrere le mutandine gialle con Titty disegnata sopra e cominciava a stuzzicarsi il clitoride.
Aveva ragione lei, mi veniva così duro che avrebbe potuto fare sopra le flessioni se avesse voluto.
Andava su di giri da matti, me lo afferrava e lo stringeva come una pazza, allora mi sdraiavo e lasciavo che mi lavorasse un po' di bocca.
Il pompino era da manuale e mi dava l'occasione di giocare un pò con quelle bocce mostruose.
Poi la ribaltavo e le tiravo su le gambe e pompavo lentamente, in modo che l'osso che avevo sopra il coso le sfregasse il clitoride.
Aristotele ne annotò già l'esistenza, un certo Galeno, nel II secolo, descrisse la prostata femminile, nel seconda metà del 500, un anatomista italiano riferì dell'eiaculazione femminile mentre spiegava le funzioni della clitoride, e nel XVII secolo un'altro anatomista, questa volta olandese,scrisse, in un libro sull'anatomia femminile, di fluidi "che correvano fuori" e "che zampillavano" durante l'eccitamento sessuale.
Quando veniva, dopo abili giochetti di mano, mi spruzzava in faccia tutto il glucosio, tutto l'
antigene prostatico e tutta la creatinina e urea, che la sua oscena vagina era in grado di espellere sotto forma liquida.
Se qualcuno di voi oggi mi chiedesse che cosa penso della mia ex collega di lavoro gli risponderei che è una troia da sballo ma anche un tipa completamente pazza.
Infatti, quando decisi di lasciarla a motivo di certe divergente sulle quali non intendo soffermarmi, ella mi accusò pubblicamente di molestie sessuali.
Ovviamente nessuno le credette, ma saltò fuori che avevamo scopato durante l'orario di lavoro.
Durante un colloquio a tu per tu con la mia ex direttrice, un aiutante donna delle SS sui cinquanta, secca e maliziosa, mi spiegò come lei capisse, con una valanga di comprensione, quanto la mia fosse una famiglia di poveri pezzenti ma che avrei dovuto autodisciplinarmi o magari mostrarmi più disponibile quando anch' essa  mi mandava certi messaggi, invece di abiurare.
Non appena il sinedrio si sciolsè firmai le mie dimissioni ed uscii di strada tutto sballato come a venir fuori da un cinema dove ti sei fatto un film di quattro ore in cui non hai capito niente.
Pensai tutta la notte a quegli inquisitori, ai loro luridi discorsi e alla morte.
Ero disoccupato e mi sembrava che ci fossero molte cose da dimenticare e molte da non fare.
Muovevo le braccia come uno spaventapasseri nel vento ma non serviva a niente.
Il mondo mi aveva tradito un'alta volta.

lunedì 29 novembre 2010

Il prete è un pretesto

di Daniela Pasiphae e Luca Caristina



Mio nonno, quando ero piccino, mi portava sempre nel bosco con lui e mi diceva "Lo senti questo rumore?"
Io ascoltavo ma non sentivo nulla. Allora ascoltavo ancora ma ...ancora non sentivo nulla.
Mi veniva da non rompere quel momento di ascolto ma la curiosità era sempre troppa, ogni volta, e così dicevo "Ma nonno, che rumore dovrei mai sentire?". E lui non rispondeva e riprendeva il suo lavoro con la legna.
I colpi che fendevano quella legna asciutta risuonavano al ritmo del mio respiro calmo. E mi chiedevo quale rumore dovessi distinguere, fra il canto della natura circostante e il ritmo incessante di quel lavoro con la legna.
Non potevo indovinare senza riflettere, o forse la risposta era solo un tranello. Uno scherzo.
Uno scherzo spaccacervello, che si sarebbe risolto in un premio non premio.
Mentre trascorrevano così le giornate nel bosco, in quell'autunno già freddo quanto un inverno che si rispetti, invece che esaudire i desideri di mia madre che voleva che io imparassi a fare la legna, mi divertivo a rincorrere ogni essere vivente a me noto.
Mio nonno, di quello che voleva mia madre per me, se ne fregava come un'anatra dei giudizi di un prete.
Tutti i giorni, dopo quell'ormai quasi assillante indovinello sistematicamente pronunciato dai baffi del padre di mio padre, mi perdevo e ritrovavo, e così, fino a che non venne l'ultimo giorno di raccolta della legna.
"Il prete è un pretesto", ripeteva il nonno. E ancora una volta mi portò con sè lontano dalla radura del villaggio.
Non ero per nulla certo che volesse insegnarmi quel suo lavoro, buttandomi sulle spalle ancora giovani un vincolo di fatiche. Una promessa così pesante da portare.
Il mosaico doveva ricomporsi. E così è stato.
"Nonno, sono quasi tre settimane che mi chiedi ogni giorno se sento un qualche rumore ed io non capisco a cosa ti riferisci, ma ammetto che ci possa essere qualcosa che io non capisco - però, vedi, il problema è un altro, adesso".
I suoi occhietti cercavano di guardarmi.  Vedevo che si sforzava ma le cataratte gli impedivano di distinguere i miei contorni. Sapeva dov'ero - e dov'era la legna. "Che problema c'è?" mi chiese dolcemente.
"Vedi nonno, da qualche giorno hai iniziato a ripetere la frase "Il prete è un pretesto" ma io non riesco a capire a cosa tu ti riferisca. Oggi tornerò a casa e mamma mi chiederà "Allora, hai imparato a fare la legna?" ed io cosa le dirò?"
"Figliolo. Certe cose si imparano solo stando seduti sotto la chioma di un albero. Dunque, questa sarà la tua risposta una volta tornati. E madre, tacendo, capirà." "Nonno, mi fido di te", risposi d'istinto, e continuai."Ma allora, sto rumore???"
"Non riesci a sentire il rumore che produce la vita di tutte le cose perchè la tua mente è impegnata a cercare di interpretare cosa devi sentire".
Non riuscii a dire nulla, in quel momento. Finì che nonno non lo rividi più.
Quando tornai a casa da mamma e le spiegai che non avevo imparato a raccogliere e tagliare la legna, lei quasi si mise a piangere. So a cosa pensò. Senza mio padre, come avremmo fatto per il prossimo inverno? Ma mia madre era una brava donna e molto comprensiva, così mi diede la possibilità di spiegarmi "Cosa hai imparato, dunque, in queste settimane?"
Non risposi. Non avrebbe compreso. Non era la sua lezione, bensì la mia.
E mi ritirai lasciandola nel pianto, come mio padre fece con la nonna, tanti tanti anni fa.
Il nonno ci lasciò, trasformandosi in un ramo secco. Ed io, ormai colmo del suo messaggio di vita lo potai, sollevando quel suo attrezzo dal legno ancora lucido di fatiche.
E così diventai un taglialegna.
Solo una cosa, ho dimenticato di dirvi.
Prima di scoppiare in lacrime, mia madre mi disse "Sei come quel... quel... tuo padre!" e mi tirò uno schiaffo.
Mi ritirai col ricordo di cinque dita stampate in faccia ma questo non avevo dimenticato di dirvelo, in realtà. E' solo che, un po', me ne vergognavo.
Spero non mi riteniate uno smidollato.
O ancor peggio uno sfigato.
Vabbè, vado a mangiare che la pastina è pronta.


Finale ermetico di Luca Caristina:
"Porcaccia, ecco cos'era sto rumore. La batteria dell'amplifon...."

domenica 28 novembre 2010

Eloise se ne andava scalza

di Daniela Pasiphae



Guidavo da almeno cinque ore senza sosta e sotto una pioggia che si ostinava a sopravvivere.
Non mi piaceva quello che avevo visto fino a quel momento.
Insomma, l'asfalto e l'acqua. Secondo me insieme non fanno una grande coppia.
Viaggiare in asettica solitudine non fa bene - si ha modo di pensare. Non v'è nessuna differenza, parlare col tuo Io o parlare con un amico, se sei tu a parlare, dici comunque le stesse cose. Se è il tuo Io a parlare, sarà comunque in disaccordo col tuo cuore, tanto quanto un amico invidioso.
Mi fermai a bordo strada, la macchina mi guardò di sbieco e mi fece l'occhiolino, un piccolo cenno di ringraziamento. "Hai ragione bella mia, scusami. Avevo bisogno di questo viaggetto. E tu avevi bisogno di perdere qualche chilo!". Non mi rispose.
Tastando coi piedi, indugiai appena li sentii sprofondare nel fango. Aveva smesso di piovere forse da neanche mezz'ora. Sforzando un po' la vista riuscii ad arrivare vicino ad un albero, l'idea era quella di fare la pipì ma, sentendomi addosso dei goccioloni di pioggia che, una goccia sull'altra, si univano per sfondarmi il cranio, decisi di pisciare in mezzo all'erba, lontano dai bombardamenti.
Fu una lunga seduta di espulsione che mi fece perfino correre un brivido lungo la schiena.

La donna che stava con me dormiva alcolizzata sui sedili posteriori.
Avevo deciso di chiamarla Eloise perché lei era muta ed io non sapevo leggere il suo nome che, goffamente, aveva abbozzato sul tovagliolo del locale, scrivendolo, come in quei film anni ottanta, con la matita per gli occhi.
Dopo i primi due drink aveva accettato di buon grado quel suo nuovo nome e aveva ripreso a sorridere. Per tutta la serata le avevo raccontato di me e dei miei viaggi e lei si era mostrata molto divertita. Aveva riso anche quando le avevo mostrato il tatuaggio che mi ero fatto in carcere; una scritta che recitava "Sono posseduto da Dio". Rasentava la blasfemia ma lei rise lo stesso. Fu in quel momento che dubitai perfino che lei comprendesse la lingua che stavo parlando e che mi ero tatuato addosso, quella notte, ubriaco, in compagnia di Bill The Big.
Bill The Big, le avevo raccontato, era un omino minuto dal cuore grande. Lui era finito in carcere per aver soffocato nel sonno il suo datore di lavoro. Bill The Big lavorava come transessuale e aveva due tette sode e i capezzoli sempre turgidi. Ma non era il cuore a conferirgli quel suo beneamato appellativo "The Big". Per fortuna non ebbi mai modo di toccare con mano i motivi del suo nomignolo anche se, più volte, mentre mi lasciavo trasportare dalle sue labbra o mentre lo immolavo, la tentazione l'avevo avuta.

Guardavo quella ragazza, beatamente addormentata. Mi domandavo se fosse il caso, dato che non era cosciente, di spogliarla e di provare a vedere la sua reazione. Volevo a tutti i costi avere un rapporto sessuale con lei. Per tutto il viaggio in macchina, a parte la prima ora trascorsa a ridere da solo con l'ennesima birra tra le labbra, mi ero domandato come mai non avessi approfittato di lei prima che si addormentasse, quando ancora rideva, trasportata dall'alcool sul letto dell'euforia.
La risposta che mi ero dato, più volte diversa, alla fine era che - la rispettavo.
Non avevo mai guardato prima d'ora una donna dormire. Le avevo sempre cacciate via subito dopo essermi svuotato od ero scivolato fuori dal caldo giaciglio mentre loro ancora si domandavano se avessero appena fatto sesso con un uomo malato o col Diavolo in persona.
Questo era successo prima di essere sbattuto in gabbia, chiaramente. Da lì, fatto salvo per Bill The Big, non avevo più provato il sesso.
La cosa su cui riflettevo maggiormente, anche dalla cella, era che, per la prima volta in vita mia, con Bill mi capitava di vivere il sesso in modo, possiamo dire, normale. L'evidente conclusione era che, essendo lui un uomo, lo rispettavo e un po', forse, lo temevo anche. Non fisicamente, s'intende. Io ero forse il doppio di lui. Temevo il suo cuore, che era profondo quasi quanto la sua gola.

Guardavo i capelli di colei che, qualche ora prima, aveva ravvivato la mia prima serata di libertà.
Dal carcere avevo immaginato una festa, gli amici, forse anche qualche donna lasciata scivolare via. Scappare, forse, è il termine più corretto.
Ad inizio serata, appena intravista ballare tra i tanti corpi sudati che animavano la pista, l'avevo subito notata e non avevo smesso un istante di guardarla. Aveva tanti boccoli quanti i serpenti di Medusa ed erano tutti rossi, arancio e castano infuocato. Gli occhi blu, quando mi strinse la mano, abbozzando con le labbra il suo nome - "Eh?" chiesi, sgarbatamente "Non sento con questa musica, parla più forte!". Troppo tardi quando capii che non poteva parlare, lei si era già rattristata. Per diversi minuti cercai di leggere quel nome dalle sue labbra, che affannosamente tentavano di mimare le lettere, una per una. Poi vi rinunciai e la chiamai, dentro di me, Eloise, ma senza dirglielo subito, per non turbarla.

La luna non c'era e non poteva quindi illuminare i di lei contorni del volto. Per questo motivo non posso descrivere nessuna scena romantica, al chiaro di luna, anche se mi piacerebbe tanto farlo.

Alzai il sedile davanti del passeggero, aprendomi la via verso di lei. Non si muoveva, appena respirava. Garbatamente occupava quel suo spazio, rannicchiata in posizione fetale. Il vestitino appena sollevato a scoprire una coscia - bianca.
Stavo per alzare, in punta di dita, un lembo della gonnellina, quando lei aprì gli occhi.
- Che stai facendo? - mi disse. La sua voce era roca.
Pensai fosse la macchina a parlare, così mi voltai verso i sedili anteriori.
Quando tornai su di lei, avevo una Beretta puntata in mezzo agli occhi.
Il momento in cui urlò "Muori stronzo!" io sentii di amarla come mai avevo amato un essere umano. Quella forza d'animo, la sua vitalità. Il suo gioco di fingersi muta e tutta la sera a bere e a ridere con me. A fissarmi intensamente con quegli occhi blu. Io l'avevo amata e rispettata fin dall'inizio. E anche lei, a modo suo, mi aveva amato. Perché non esiste odio se non c'è amore ferito.

Mentre mi sgorgava a fiotti il sangue dal cervello, la guardavo allontanarsi a piedi.
Lei era scalza e portava quel suo vestitino come se neanche l'avesse.
Mentre morivo, mi permettevo di amarla e mi preoccupavo di cosa ne sarebbe stato di lei. Di dove sarebbe andata, da sola, nella notte. L'avevo portata lontano dalle abitazioni di molti chilometri. Chissà se lei lo sapeva.
Mi domandavo anche come avrebbe fatto a non farsi male, andando scalza su..

Camminavo in fila.
A quella menata della fila per entrare in Paradiso non ci avevo mai creduto. E neanche a San Pietro con le chiavi e tutto il resto.
Intorno a me c'erano altri esseri umani. Provavo a parlare con loro ma dalla mia bocca non usciva alcun suono. Pensai a Eloise.
Mi chiamò una donna. Era bionda ma non sembrava tinta. Le guardai il seno e a stento si intravedeva, sotto la veste.
Mi disse "Hai la possibilità, prima di entrare nel Regno dei Cieli, di stabilire un contatto terreno con una persona, tramite sogno. Dimmi che tipo di contatto vuoi stabilire e con chi e vedrò se la cosa è possibile."
L'assistente sociale di Dio mi piaceva parecchio ma non mi stimolava nessuna reazione sessuale. Mi toccai con la mano il mio organo genitale per accertarmi di esserne ancora in possesso.
"Signorina, vorrei andare in sogno alla donna che mi ha ammazzato, crede che sia possibile?".
L'assistente sociale di Dio mi guardò, come se l'aspettasse questa richiesta.
"Gentile signore, se lei vuole conoscere i motivi della sua venuta in questo posto, questi sono segnati tutti sulla sua cartella che a breve le consegnerò, sbrigate queste pratiche. Quindi anche i motivi del perché lei è stato ucciso. Vuole dunque andare, comunque, nei sogni di questa donna o vuol cambiare la sua richiesta?"
Senza pensarci le dissi che volevo comunque andare in sogno ad Eloise.
"Si chiama Sarah. Chiuda gli occhi".

Feci come disse e mi ritrovai seduto in mezzo ad una pozzanghera, inzuppato d'acqua. Pensai che Eloise mi volesse così, nel suo sogno, era lei a decidere. Lei non c'era ma, essendo nel suo sogno, potevo parlarle. "Eloise, cara, non ce l'ho con te, fatti vedere un'ultima volta".
Non rispose. In compenso mi piazzò davanti un cane furioso che mi ringhiava con aria irragionevole. "Eloise, me ne vado subito. Volevo dirti che sei stata la sola donna che io abbia mai amato." - il cane mi azzannò la testa ed io tornai al cospetto dell'assistente sociale.
"Non riescono mai questi contatti con l'assassino, appena dopo morti. Sono sempre brevi e travagliati. C'è sempre troppo odio. La cosa che mi stupisce è come mai i bambini, fino ai sei anni solitamente, non chiedano mai di entrare nei sogni di chi li ha uccisi."
Non la stavo ascoltando molto così evitai di cercare una risposta alla sua riflessione.
La donna bionda mi diede in mano una cartella con dentro le mie scartoffie.
"C'è una persona, qui da noi, che vuol parlare con lei. Una volta passato dalla Porta, cerchi il signor Adam Taylor."

Adam Taylor, Adam Taylor.
Ad Adam Taylor avevo rotto l'osso del collo in una lite davanti ad un locale.
Adam Taylor era la ragione per cui avevo scontato la mia pena in carcere.

Non mi chiesi cosa dovesse dirmi.
Aprii la cartella e lessi i miei dati.
La cronologia di tutte le cose fatte e non fatte, dei gesti egoisti, delle violenze, dei gesti d'amore, delle parole dette e di quelle mancate, partiva dall'ultimo avvenimento della mia vita ed andava a ritroso.
Lessi:
Ulteriori pensieri d'amore su Sarah Taylor.
Ucciso con un colpo di pistola in fronte da Sarah Taylor.
Ulteriori pensieri osceni su Sarah Taylor.
Ulteriori lesioni al fegato da alcool.
Pensieri osceni su Sarah Taylor.
Pensieri d'amore su Sarah Taylor.
Pensieri violenti su Aaron Richardson.

Pensai "Ma Aaron Richardson chi cazzo è?"



venerdì 26 novembre 2010

Figliare

di Rocco Bonelli



Non c'è uomo senza disgrazia come non c'è inverno senza freddo.
La mia disgrazia era che non avevo figli.
E pregavo di giorno e di notte, pregavo Dio in ginocchio e in altre posizioni che mi mandasse dei figlioli:
"Oh signore, dev'essere divertente avere un marmocchio con cui andarsene in giro.
Un piccolo me stesso in cui infondere le mie idee.
Un modo per affermare che la vita non è sprecata.
Terrei il monello lontano dagli insegnanti e lo istruirei per conto mio.
Lo difenderei dalle insidie di una folla.
Gli insegnerei ad accendere un fuoco, suonare la chitarra e se s'imbattesse in un cacciatore a sparargli in testa.
Cercherei di essere progressista per quanto possibile a patto di non dovermici sforzare troppo.
Alleverei il buon figlio che mi conduca alla tomba e mi faccia compagnia una volta diventato un rimbambito sdentato e rugoso, un vecchio matto e farfugliante seduto tutto solo a pisciarsi nel pannolone, un vecchio malato a suo agio nello sporco."
Dovevo leggere poesie in un caffè, ma arrivai in anticipo, per cui ordinai una soda e mentre stavo pensando alla mia infelicità e alla felicità di quelli che hanno i bambini, incontrai un arabo:
"Voi non avete quella cosa delle 72 vergini in paradiso?
Ma scusa, non sarebbe più semplice se i kamikaze
fossero accolti in cielo da 72 puttane esperte?"
L'arabo s'imballò e per poco non fece una trottola di me.
Recitai come si deve la mia roba e la feci franca, scesi dalla pedana e dopo un po' ero di nuovo in macchina guidando verso casa.
"Che cos'hai?"
 mi domandò Gesù seduto sul lato passeggero.
- "Vorrei avere dei bambini."
- "E poi che cosa vorresti?"
Ed io risposi per la seconda volta che volevo dei bambini.
- "Ti chiedo un'altra volta..." disse Gesù "...che cosa vorresti poi?"
Risposi per la terza volta che volevo dei bambini.
Rincasai ed il cortile era pieno di bambini.
Mi trovai in casa né più né meno di un centinaio di bambini e tutti quanti mi chiamavano "papà" e mi chiedevano da mangiare.
Diventai pensieroso: "con che cosa si può sfamare questo esercito di bambini?"
Vendetti le mie chitarre, comprai tanta farina e poi andai per il mondo a guadagnar loro il pane.
Andando per il mondo una sera arrivai ad una fattoria.
Dentro il recinto c'erano alcune migliaia di vacche e dodici mandriani.
"Buona sera, ragazzi."
- "Salute, amico."
E cominciammo a parlare del più e del meno finchè non dissi loro che avevo piantato baracca e burattini per guadagnare da mangiare a un centinaio di bambini.
I mandriani mi raccontarono che a loro andavano bene le cose, ma c'era un maledetto ritardato che ogni notte rubava tre mucche.
Tanto per mettere la vita in riga replicai:
"Vediamo di fare un patto: che cosa mi date se ve ne libero io?"
Conclusero che mi avrebbero concesso un terzo di tutte le vacche se fossi stato così bravo da tenere il ritardato lontano dalla fattoria.
Allora mi misi in agguato nel recinto.
Verso le tre di notte arrivò il ritardato e fece per entrare nel recinto.
Era un minorato fisico e psichico, sulla trentina, espressione ebete. I suoi occhi erano idioti, la fronte e il mento sfuggenti, un lurido ciuffo nero si stendeva sul suo cranio a pera, aveva un naso tendente a formare una linea dritta con la fronte, una bocca larga, labbra pendule e sottili.
Gridai senza complimenti: " Non ti avvicinare!"
Ma il ritardato rise fragorosamente: "Chi sei tu che mi vuoi impedire di entrare nel mio recinto?
Ti colpirò con la mia onda energetica!"
-"Io sono il guardiano della fattoria e mangio pietre e carne di deficente.
Vediamo chi di noi due è capace di tirare fuori l'acqua dalle pietre!"
Il ritardato, improvvisando una goffa mossa di karate, colpì un gran masso con un pugno e lo sbriciolò, ma non ne uscì una goccia d'acqua.
Allora presi un pezzo di caciotta che avevo dentro la bisacca e come lo strinsi, cominciò a gocciolarmi il siero tra le dita.
Il ritardato rimase sbigottito e disse:
"Vedo che sei più forte di me.
Sai cosa ti dico?
Vieni a fare il maggiordomo a casa mia, perchè mia mamma è molto tempo che ne cerca uno."
Concordammo uno stipendio da capogiro, subito dopo mi assicurai che i mandriani rispettassero i patti e visto con chi avevano a che fare così fecero.
Quando giungemmo a destinazione trovammo la madre del ritardato ad attenderci.
"E questo tizio chi sarebbe?"
-"L'ho preso a servizio per tre giorni"
"Bene", disse la madre "vediamo chi dei due è più forte!"
Il ritardato afferrò la sua clava di cento chili e la lanciò ad una cinquantina di chilometri.
Poi mi disse: "Vai a prendere la clava, poi vediamo fin dove sei capace di lanciarla."
"D'accordo" replicai "ma prendiamo le provviste per almeno tre giorni, voglio farti vedere di che pasta sono fatto."
Cammina cammina trovammo la clava.
Ero esausto e mi ci sedetti sopra.
"Beh, che fai?"
chiese il ritardato
"tocca a te tirare!"
"Aspetto che tramonti il sole perchè non voglio colpirlo, né voglio che la clava rimanga là su in alto.
Nel sole c'è mio fratello che fa il fabbro e se ti prende la clava, sono sicuro che non la vedi più."
-"Ah, se devi fare tanto danno, forse è meglio che tiri io al posto tuo."
"Come vuoi"
risposi io.
Il ritardato afferrò la clava e la gettò indietro, verso casa.
La sera raccontammo alla madre l'accaduto e tutti, compreso io, ci stupimmo della mia forza straordinaria.
Il giorno dopo la vecchia ci mandò a prendere l'acqua.
Giunti alla fonte il ritardato riempì due otri enormi e fece per ripartire.
"Come si fa a prendere tutta quest'acqua portandone via solo un po'?"
Così dicendo estrassi il mio serramanico e cominciai a scavare intorno al perimetro della fonte.
"Che cosa fai?"
chiese il ritardato.
-" Voglio prendere tutta la fonte in una volta sola."
Sbalordito il ritardato replicò: "Lascia stare, è meglio che non rischiare di guastare la fonte, porterò io il tuo otre."
E così trascorse anche il secondo giorno.
La mattina sucessiva la madre ci mandò a far legna.
Stavo legando le viti una all'altra, per i tralci, perchè volevo formare una fune per far non so che di grandioso, quando il ritardato m'interrogo a proposito del mio operato.
"Che vuoi che faccia?!"
replicai
"Non voglio tornare a casa con della legna secca, voglio portarmi dietro tutto il bosco!"
"Non sia mai che tu strappi dalla terra questo amato bosco!"
disse il ritardato
" Piuttosto porto io un albero al posto tuo!"
Così il poveraccio si caricò un secondo albero sulle spalle e poi si avviò ansimando verso casa, mentre io camminavo dietro di lui fumando come un signore.
Era passati tre giorni ed era giunto il momento di percepire il mio stipendio, ma dopo cena, la madre convocò il figlio per vedere come farmi perire.
"Non è una bella cosa che domani se ne vada da casa nostra.
Stanotte, mentre dorme gli andrai a spaccare la testa con una mazzata.
Hai capito?!
Bene in fronte, che muoia!
Perchè mi secca di dovergli dare tutti quei soldi."
Avevo ascoltato tutto da dietro l'uscio, ma non mi spaventai poichè sapevo che il figlio era stupido oltre ogni limite.
Quindi andai in camera ed infilai nel letto un grande ciocco di legno, poi dopo averlo coperto bene m'infilai sotto il letto e per ingannare l'attesa mi sparai una paio di rasponi.
Finalmente un colpo di clava colpì il ciocco e subito dopo vidi ritornare il ritardato da sua madre.
I due, che abitualmente si lasciavano andare a pratiche incestuose, ripresero a copulare, convinti di avermi tolto di mezzo.
Il mattino seguente, con grandissima meraviglia, la madre mi domandò:
"Come hai dormito stanotte, caro?"
-"Bene, grazie.
Soltanto mi è sembrato che mi passasse un sorcio sulla fronte."
Vedevo bene che il ritardato e sua madre avevano paura di me e quindi mi proposi con decisione di restare ancora un po' al loro servizio, ma questi, per vedermi andar via, mi offrirono un compenso extra a quello già patuito.
Andai alla macchina e filai con le tasche gonfie.
Gabriele, Sofia, Elisabetta, Tommaso, Pietro, Raphael, Giacometto...
Mi occorrerebbe un cazzo di computer per prendere nota di tutti i nomi dei miei figli.
Spero che questa storia del piccolo non diventi esagerata.

mercoledì 24 novembre 2010

Blu

di Daniela Pasiphae
tratto da "Noraelle To Mars"




Il rumore assordante della pioggia battente non le permise di udire l'arrivo del friesian.
Una zampa dopo l'altra, sbattuta su quel suolo sterrato, con forza. A volerla rompere per farne uscire l'inferno del sottosuolo. Per sentirsi a casa, forse.
Caronte, il traghettatore di anime.
Ne portava una – ed era bella.
Jared era, a vederlo, davvero un cavaliere poco comune e dall'aspetto surreale. Sembrava uscito da un libro fantasy di Tolkien.

MA DOVE STIAMO ANDANDO? – le urlò.
Un grido a sovrastare il rumore della pioggia, del vento. Sovrastò anche il tuonare di quell'istante.
Lei si sentì male, un vuoto dentro.
Sì voltò, lentamente, come chi ha una pistola puntata alle spalle. Voleva vedere il suo assassino. E lui se ne stava lì, un po' bagnato dalla pioggia, in sella al nero destriero, con aria spaurita e vaga. Gli occhi sbarrati, il fiatone.
Restarono così per un po'.
Nei pensieri di Nora non c'era niente di concreto. Non un verbo, un aggettivo, che avesse un senso se posto accanto a quello che le veniva in mente subito dopo.
Non c'era verso. Provava a riflettere con calma ma non era davvero possibile.
Poi gli stivaletti del discepolo – neri – balzarono a terra. Caronte accennò qualche movimento nervoso. Aveva ancora l'adrenalina che gli pulsava nelle vene e non sapeva come scaricarla. Sbatteva lo zoccolo a terra. Avesse avuto le ali sarebbe volato via.
Jared teneva le briglie della bestia nera. Si avvicinò a Noraelle che non sembrò stupita o scomposta.
– Dove siamo? – Perché siamo qui?
Non lo guardava, lei. Non ci pensava nemmeno.
Teneva il capo leggermente di sbieco, gli occhi a guardare le fronde degli alberi.
– Dovevo andarmene!
Lei parlava rivolta ai rami. Quasi ci fosse un santo al suo cospetto, teneva uno sguardo perduto tra i raggi di luce della sua aureola. E non lo guardava.
Qualche mente coerente e scientifica l'avrebbe definita "in stato di shock". In realtà, era semplicemente in una dimensione ultraterrena, immersa in meccanismo di alienazione della mente dal corpo. E così parlava come la stesse interrogando Dio in persona. – Lievemente, sussurrava.

– Qui cosa c'è? – le chiese.
– Il bosco.
Abbassò poi lo sguardo su di lui.
Jared.
Era proprio lui ed era proprio lì.
Era serio ma guardava con occhi – blu – stupiti.
I capelli scendevano giù dalla curva della sua testa, lucidi e leggermente bagnati. Gli contornavano il volto, incorniciandolo. Un po' di matita nera sul bordo della palpebra inferiore. A rendere quel blu ancora più avventato.
Pericoloso, se vogliamo.
Noraelle guardava lui e lui, lei.
La studiava con fare curioso. Il capo alzato. Ma lui non vedeva i santi tra le fronde. Vedeva solo una donna – i capelli raccolti – qualche boccolo che cadeva giù. Così, solo per dire che erano lunghi e scuri i suoi capelli. Una veste bianca dell'antica Grecia.
Sirha era l'unica dei Discepoli che vestiva di bianco. Era spirito e non conosceva la carne come la conoscono tutti.
Jared continuava a fissare Noraelle. Non si chiedeva nulla su di lei, solo non capiva l'alienazione che mostrava.
In quel momento così, come se qualcuno avesse chiuso un rubinetto improvvisamente, smise di piovere. Un uccellino canticchiò e Noraelle guardò tra gli alberi come per scoprire l'autore di quelle note.
Non più i santi, dunque. Ma solo un uccellino colorato.

martedì 23 novembre 2010

Altea ci mette solo la bocca

di Daniela Pasiphae 


Altea, a guardarla così, pareva blu.
Pareva poi che qualcuno le avesse cavato gli occhi - forse un corvo stizzito, quand'erano invece solo le ombre che gli zigomi creavano, colpiti da una luce oltremare che spuntava perversa da sotto i suoi piedi.
Come immolata, stava ritta in punta di piedi sul bordo della piscina.
Nessuno la vedeva, realmente, ma tutti la guardavano - e ridevano, sotto ad una specie di peluria che, fra loro, avevano l'ardire di definire "baffi". Qualcuno ancora sgomitava al vicino ma nessuno osava proferire parola alcuna.
"Smettete di ridere, inutili ragazzini!"
Altea, quando parlava, non ci metteva la voce ma solo la bocca. Le piaceva fossero viola le sue labbra. E a tutti - piaceva.
Quel giorno camminavano per lei le matricole dal numero 755 al 770.
In riga, prima, in fila, poi. Erano tutti ragazzi dalla pelle dorata, capelli nero corvino ed occhi color carbone. Ardeva in loro un chiaro istinto ad annientarsi l'un l'altro ed era questo, fondamentalmente, ad eccitare la Dea.
Fu nel momento che lei sempre preferiva, quello della scelta. Entrò Gu' e le sibilò dolcemente ad un orecchio "Altea vieni con me, ti prego".
Gu' era il fratello di quella che ormai tutti riconoscevano come Dea.
La adagiò sul letto e su di lei si permise di sfogare i suoi istinti primordiali che da diverse ore non trovavano pace. Il tutto durò appena cinque minuti.
"Grazie sorella" - "Fratello, io vivo per questo".
Uscì così, sfilando tra servili donne indiane che tremavano al solo pensiero di guardarla, e tornò ai suoi ragazzi. Se ne stavano ancora tutti a bordo piscina - avevano smesso di ridere.
Incapace di decidere, la Dea urlò ad una delle donne che, poco lontano, la osservavano, in attesa di ordini "Mandatemi a chiamare quell'idiota di Carlos!".
Detto fatto, di lì a poco comparve da dietro una tenda, un omino piccolo piccolo, con gli occhietti strizzati che Dio solo sa come faceva a vedere dove se ne andava!
"Carlos, vieni qui! Ho sempre sospettato che tu sia mezzo cieco ma stavolta ne sono quasi certa! Dimmi, Carlos, cosa ti sembra di questi ragazzi?"
Ma Carlos tremava come un cucciolo malmenato e non osava alzare lo sguardo alla donna. Altea - lei restava sempre nuda, questo va detto.
"Carlos, di questi quindici che ho qui davanti, forse uno è vagamente accettabile, gli altri li puoi riportare dove li hai trovati! Vai!"
Poi si rivolse alla matricola 759 "Tu, rimani fermo dove sei. Gli altri se ne tornino da dove sono venuti!"
Carlos scivolò come il primo serpente, colpevole fino al midollo. - Non era mica colpa sua, a dirla tutta - gli indios iniziavano a scarseggiare e Altea aumentava le sue pretese di giorno in giorno.

- Ragazzo, come ti chiami?
- Moylan, signora.
- Moylan, entrare nel mio harem significa vivere come un re ed avere da mangiare ogni giorno. Da dormire, acqua a volontà e a disposizione il sesso, a tuo piacimento.
Oramai sei entrato in questa spirale e da qui non tornerai indietro.
L'indios fissava la donna, immaginandosi avvinghiato alla sua carne, sudato ed ansimante.
- Ragazzo, quella faccia da idiota non è un buon inizio. Ti sei deliberatamente preso un impegno, da qui si va avanti o si finisce a dormire con mio nonno. Hai carta bianca, fammi ciò che vuoi.
Si sdraiò a terra, Altea. Le labbra viola e la pelle lucida, accaldata.
Fissando la giovane matricola, teneva la testa leggermente inclinata, quasi non riuscisse a comprendere come mai lui, a differenza di coloro che prima di lui avevano intrapreso le stesse vie, non si buttasse bestialmente addosso al suo corpo umido.
Moylan la fissava. Aveva cambiato sguardo, senza più avere paura.
Compassione - era questo il sentimento che ora sentiva di provare per quella donna, lì, davanti a lui, pronta a perire sotto la sua lancia - povera di vita e ricca di brama.
Non capiva, Altea. E non sapeva se cacciare l'ennesimo urlo o lasciare che il ragazzo si esprimesse. Così si lasciò vincere dalla curiosità.
Moylan, in ginocchio davanti a lei. La testa inclinata, così, per imitarla.
Con un gesto delicatissimo richiuse le cosce divine, da poco spalancate per ricevere la sola energia ormai in grado di tenerla in vita - di farla sentire vera.
Fatto ciò, allungò la mano in un leggero tocco della sua pelle. Una carezza, qualcosa che ormai aveva dimenticato. Con appena due dita, percorse la linea soffice che le disegnava il volto, staccandolo dallo sfondo color nocciola.
Dagli zigomi al mento - raccogliendo piccole gocce salate di una donna mai amata.

Racconto in concorso per “THE SEVEN DEADLY SINS: I SETTE VIZI CAPITALI” Tema: LUSSURIA (dedizione al piacere e al sesso)

lunedì 22 novembre 2010

L'angelo della chiesa di Efeso

di Rocco Bonelli



Eravamo appoggiati alla ringhiera di poppa quando credetti di avvistare terra.
Strillai a capitan Achab.
Quello corse per il ponte e disse:"Dimentichiamoci la balena, ammaina la vela, a raccolta sulla bolina!"
E ci mettemmo a cantare come fanno i marinai quando sono in mezzo al mare.
Un'aria fredda passò sopra il rigido guscio dei crostacei e noi remammo verso la spiaggia.
"Mi sa che la chiamo America" mi scappò di dire all'approdo.
Respirai a pieni polmoni e stramazzai, non stavo dritto.
Capitan Achab tirò fuori un contratto e disse: "Costruiamo qui il nostro caravanserraglio con il fogliame di una palma da cocco."
Proprio allora arrivò uno sbirro in paranoia, vide i nostri remi come armi improprie e ci arrestò.
Non chiedetemi come, ma riuscii ad evadere e viaggiai a lungo con una mucca frisona attraverso valli circondate da pendii scoscesi coperti da un erba terribilmente verde e dagli steli lunghi e dritti.
Ad un tratto percepii l'acqua che scendeva rovinosamente dal punto più alto delle colline, poi si trasformò in fiumi in piena e subito dopo in enormi cascate che minacciavano di allagare il mio sentiero con la loro sfrenata spinta.
Cambiai posizione nel letto, per chi ancora non lo avesse capito, in quel momento stavo sognando.
Risalii per un istante alla superfice del sonno e poi ridiscesi nel regno dei dormienti catapultandomi sulla riva di un fiume, le cui acque rosse come sangue, scendevano in mezzo a grandi massi di superfice levigata e di svariate forme tondeggianti create dal lavorio della corrente.
Una strana presenza mi fece guardare verso l'altra sponda.
Con l'acqua all'altezza delle ginocchia, una donna nuda mi osservava.
Aveva la pelle color rame e in maniera troiesca era molto sexy.
La vagina spuntava alla fine delle cosce senza che la nascondesse peluria alcuna.
Attraverso la fessura delle palpebre, i suoi occhi di un nero intenso mi masturbavano.
I grandi seni avevamo dei grossi capezzoli eretti, circondati da una grande macchia rossa.
Nuotai lentamente verso la femmina, invogliato dal sorriso appena abbozzato dalle sottili labbra di morbida mobilità selvaggia.
Pensai che sarebbe stato bello vedere un po' di pelo pubico, non pretendevo una boscaglia stile filmino erotico anni '70, mi sarebbe bastato quel minimo di pelo da capire che non la stavo leccando ad una bambina.
Una risata rauca si udì a breve distanza.
Proveniva da un mendicante sdraiato sulla roccia come un rettile.
Era vestito di stracci lerci e del suo volto, ricoperto da un'irsuta barba da profeta, solo si vedevano due alci intrappolate nell'iridescenza dei suoi occhi.
Il mendicante mi apostrofò con queste parole:
"Non è per te la gioia di quella carne che ti sembrava di aver già posseduto, questo ricordo rischia di minare la materia dei tuoi anni."
Rapito in estasi vidi il mendicante in mezzo a sette candelabri d'oro e lo udii proferire con voce profonda come tromba queste parole:
"Così parla colui che tiene nella sua destra le sette stelle e cammina in mezzo ai sette candelabri d'oro.Mi è nota la tua condotta, la tua fatica, la tua costanza.So che non puoi soffrire i malvagi, infatti hai messo alla prova quelli che si spacciavano per apostoli e non lo sono e gli hai trovati bugiardi.Hai costanza, avendo sofferto per il mio nome, senza venir meno.Ma devo rimproverarti che non hai più l'amore di un tempo.Considera da quale altezza sei caduto e ritorna alla condotta di prima, altrimenti io verrò a te e se non ti sarai convertito rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto.
Chi ha orecchi ascolto ciò che lo spirito dice alle chiese!
Al vittorioso farò mangiare dall'albero della vita che è nel paradiso del Padre mio."
La femmina era scomparsa, il fiume non aveva più il colore del sangue che mi aveva spinto a bagnarmi nelle sue acque.
Il sole flagellò le fronde dei pini quando realizzai di non aver mangiato oramai da quattro giorni.
Sull'insegna di legno sopra l'ingresso del primo ristorante che trovai si leggeva il nome del posto in lettere ormai sbiadite: "La neve dell'ammiraglio."
In quasi tutte le forze armate del mondo è detto ammiraglio il militare che appartiene alla più elevata categoria degli ufficiali della marina militare.
Tuttavia questa parola a me suggeriva un'altra immagine, ossia quella di un moderno cacciatore di vampiri con un bulbo gigante di aglio al posto della testa e una sfilza di fucili e pistole che sparavano aglio tritato.
Entrai in cucina e dissi a tutti che ero un critico itinerante di un mensile di culinaria.
La cameriera era un gran pezzo di fica e indossava mutandine rosa scuro.
Aveva mani da ventenne e faccia da trentenne ma andava per i quaranta.
Ordinai delle verdure grigliate ma ecco che scoppiò il ristorante a causa della solita fuga di gas.
Uscii senza pagare il conto mentre il cibo schizzava un po ovunque.
Mi svegliai col sudore che mi colava sulle braccia e andai dritto in banca in cerca della cauzione per il capitano Achab.
Quelli mi chiesero un documento ed io mi sbottonai i jeans.
Mi cacciarono a pedate in mezzo alla strada, quand'ecco che una mia ex compagna di scuola che passava di lì, m'invitò a casa sua.
Accettai l'invito, ma questa aveva un amico alto che mi picchiò e mi rubò le scarpe.
Ed io mi ritrovai di nuovo sull'asfalto.
Beh, allora bussai ad un chiosco con su esposto il tricolore italiano.
Dissi: "Gente, ho bisogno di aiuto!
Ho un amico in serie ambasce!"
E il tizio dietro al bancone mi rispose: "
Guarda che ti dico: facciamo che ti do dieci euro se non tocchi un bicchiere e ti levi dalle palle."
"Rifiuteranno anche Gesù" replicai.
- "Gesù era Cristo, tu non sei un cazzo!
Esci subito o ti spacco le ossa!"
Di corsa schizzai fuori e tutti i passanti mi guardarono saltare bancarelle e carrettini che erano parcheggiati nella piazza del mercato davanti ad un palazzo con l'insegna "Fratellanza".
M'infilai dritto per l'ingresso principale ma subito dopo realizzai che era un'impresa di pompe funebri.
Raccontai tutto il mio triste sogno ad un ciccione con la camicia hawaiana:
"Capitan Achab è in prigione"
L'uomo mi rifilò il suo biglietto e disse: " Chiamatemi se dovesse perire."
Gli strinsi la mano e lo salutai.
Imboccai una via e corsi, ma poi venni travolto da un' enorme palla da bowling che mi scaraventò a terra come un birillo.
A quel punto decisi di capitolare e di tornarmene a casa.
Ero stanco di tutta questa menata per aiutare il Capitano Achab.
Tornai alla macchina e trovai una multa ad aspettarmi.
Proprio mentre la stavo facendo in mille pezzi arrivarono gli sbirri e mi domandarono il mio nome.
Il risposi: "Sono l'angelo della Chiesa di Efeso."
Loro mi credettero ma vollero pure sapere cosa avevo fatto esattamente fin lì.
M'inventai che ero impiegato e consigliere del Papa e mi mollarono immediatamente.
Erano sbirri paranoici.
Beh le ultime che ho del capitano Achab sono queste:
Come Jona lo danno in pancia ad una balena che era poi la moglie del direttore delle carceri dove fummo internati dopo l'arresto.

venerdì 19 novembre 2010

Gianluca

di Daniela Pasiphae
tratto da "Noraelle To Mars"





Era notte, sulla spiaggia.
Sul bagnasciuga.

Eravamo distesi, lui proteso verso di me. Sulle mie labbra e mi baciava, piano. La visione era in bianco e nero. Solo il sangue sul mio volto era rosso. Scendeva dal naso, sulla bocca, ma non dava fastidio a quel bacio.

Mi sveglio.
Era solo un sogno.
Corro, mi alzo. Sono in ritardo. Dovevo andare a Venezia; come ogni anno per il carnevale noi studenti del liceo artistico eravamo soliti praticare l’arte del trucco come artisti di strada. Consisteva nell’imbrattare la faccia dei turisti come fossero vere e proprie maschere veneziane. Eravamo anche piuttosto bravi io ed il mio gruppo. Peccato che il ricavato della giornata poi ce lo andassimo a bere nei bacari veneziani. I bacari sono delle osterie.
Quella mattina salgo in treno. Preso per un pelo.
Mi siedo e mi guardo intorno.
E così noto subito che, sui posti laterali, paralleli al mio, dopo il corridoio di passaggio, c’è un ragazzo seduto, intento a leggere qualcosa. Il volto mi era coperto da dei fogli che stava leggendo, così mi concentrai sul corpo. La prima cosa che notai fu l’orologio a destra; non so bene perché ma, pur essendo destra, ho sempre portato l’orologio sul polso destro. E’ una cosa che considero molto sexy in un uomo. La vedo come un anticonformismo.
Me ne stavo lì, a percorrere da collo a piedi quel corpo, carpendo ogni minimo dettaglio. Il maglioncino, continuavo a soffermarmi sull’orologio, sulle mani. Le donne guardano sempre le mani.
Fino a che abbassò i fogli, forse per voltare pagina.
Ed era lui.
Era il ragazzo che mi aveva baciata mezz’ora prima, in riva al mare.
Non l’avevo mai visto prima.
Rimasi impietrita, mi corse un brivido lungo la schiena.
Più tardi ci furono persone, amici, conoscenti a cui raccontai questa storia, che affermarono che con tutta probabilità l’avevo già visto, magari di sfuggita, ed il mio cervello l’aveva registrato e riproposto in quel sogno. Forse è un’ipotesi attendibile, un’ipotesi freudiana.
Non lo so, mi son sempre risposta che se l’avessi visto altre volte l’avrei certamente notato. Era indubbiamente un tipo particolare, di un certo stile e molto attraente.
In quel momento non seppi che fare. Propormi, guardarlo, cercare di farmi notare sarebbe stato ridicolo. Ero vestita al limite della decenza. Non ero pettinata, truccata. Niente. E così non mi passò nemmeno per l’anticamera del cervello di mettermi in mostra. Nella mia piccola illusione feci una telefonata, al mio amico Pietro. Gli dissi che sarei arrivata a Piazza san Marco sotto il campanile in un’oretta. Ovviamente solo un miracolo l’avrebbe indotto a cercarmi. Non ero affatto piacente quel giorno.
Scesa dal treno, lo seguii per alcuni metri, nella direzione opposta in cui sarei dovuta andare, ma poi mi fermai. Realizzai che era piuttosto inutile in quanto, appunto, non ero esteticamente preparata e si sa che il primo impatto lo fa l’aspetto esteriore.
Girai i tacchi e me ne andai in piazza.
Raccontai ai miei amici l’accaduto. Solo uno di loro, un ragazzino omosessuale, mi diede retta, entusiasta. Gli altri, chi mi conosceva meglio, mi dissero “Beh ma t’innamori ogni giorno, non fai testo!”
I giorni che seguirono furono un po’ condizionati da questo avvenimento. Sebbene potesse essere un fatto piuttosto quotidiano quello di incontrare una persona interessante mentre si è fuori casa, lo era un po’ meno l’averlo sognato un’ora prima e per di più senza averlo mai visto. Lo cercai le mattine seguenti. Iniziai ad evitare di prendere l’autobus, anche dopo aver ripreso le regolari lezioni, e cominciai a prendere il treno, aumentando di un bel po’ la strada per giungere a scuola.
Non lo rividi però. Nonostante cercassi in treno, con fare vago, ogni mattina, percorrendo i vagoni dal primo all’ultimo, non mi capitò di rivederlo. Avevo quasi ormai abbandonato ogni speranza, l’avevo lasciato cadere tra i ricordi che rimangono in superficie per un po’ e poi scompaiono.
Era una serata di fine febbraio, uno di quei periodi in cui infilarsi sotto una coperta a vedere un film è l’unica cosa piacevole da fare.
Avevo appena visto Pearl Harbor e lo dovevo restituire. Quella sera doveva unirsi a me anche mia sorella per la serata “divano e film” e così fu. Me la portai in videoteca per scegliere il film da vedere.
Me ne stavo lì, tranquilla tra gli espositori, a guardarmi i titoli dei film, alla ricerca di un qualcosa di carino da vedere. Lì piazzata in mezzo al corridoio del negozio, appena all’entrata sulla sezione “Novità”. Nella mano destra il film da restituire; mia sorella a due passi da me.
D’improvviso mi giro a guardare un ragazzo passato dietro di me. Riconosco il Woolrich verde. Era lui.
Mi capitò allora di provare una sensazione che prima di quel momento avevo visto solo nei film, ottenuta con effetti audio. Sentivo mia sorella che mi parlava come se fosse lontanissima, come se tra me e lei vi fosse una barriera che impediva il suono.
Ero lì, piantata in mezzo al corridoio d’entrata. Lui stava restituendo un film. Chiacchierava con la commessa.
Poi si gira e se ne va. Mi scansa ed esce.
Balbettando spiego a mia sorella che era lui, il ragazzo del sogno.
La commessa mi vede impallidita e mi chiede se per caso mi sento male.
No, dice mia sorella, è che le piace quello lì.
Fa cenno con la testa verso la porta d’uscita. Io ancora non riuscivo a parlare. Faccio cenno alla ragazza di stare tranquilla che è tutto a posto.
Ti piace Gianluca?
Ecco che torno in me. Mi avvicino e lei sorridente continua.
Lo conosco, suona nella banda jazz di mio marito.
Prosegue senza farsi troppi scrupoli nel dirmi nome e cognome e paese di residenza, alla faccia della privacy.
In ogni caso non era mio intento, seppur fossi una stupida diciottenne, quello di andargli a suonare alla porta. Così la ringraziai e me ne andai. Senza nemmeno aspettare di arrivare in macchina, inviai un sms ad un amico, un ragazzo che frequentava la mia scuola e che suonava in quella band di paese.
Gli dissi che doveva farmi un favore perché c’era un ragazzo della banda che mi interessava e volevo sapere se era fidanzato e se eventualmente potevo avere un contatto o se poteva fargli avere il mio. Mi disse che appena l’avrebbe visto mi avrebbe fatto sapere.
Passarono i giorni, gli chiesi notizie. Mi disse che non l’aveva visto quella settimana e che avrei dovuto aspettare per la seguente.
Aspettai.
Fino a che arrivò l’atteso sms.
Diceva che gli aveva parlato, che non era fidanzato. Che gli aveva chiesto se sono carina e che gli aveva risposto di sì e lui allora gli aveva detto “dalle pure il mio numero” e così fu.
Non mi sembrava vero.
Così ci incontrammo ed iniziammo ad uscire.
Stavamo bene. Lui era divertente. Si capiva lontano un miglio che non voleva legami e così per un buon periodo pensai che fosse anche per me la soluzione migliore. Alla terza uscita un bacio e via così ma niente sesso. Lui non era innamorato di me e continuava a ripetermi che una persona intelligente non l’avrebbe mai usata.
Un giorno mi stupì; mi disse “Preferisco farmi una sega che scopare con una ragazza che non amo.”
Non so se lo disse pensandolo realmente ma immagino di sì.
Arrivai al punto di pensare di non piacergli abbastanza, almeno esteticamente, ma poi notavo che era spesso lui a chiedermi di uscire, almeno all’inizio.
Purtroppo, tra il fatto che forse non ero abbastanza per lui, tra i suoi impegni universitari ed anche qualche problema famigliare, le uscite sfumarono e a coronare il tutto ci fu la mia bella fortuna che mi fece rompere il collo durante la festa per la maturità.
Così, stroncate le uscite per un bel po’, nel momento in cui stavo ormai meglio, dopo qualche mese, riprovando ad uscire con lui, capii che si era rotto qualcosa e che non c’era poi molto da fare. Cercai di ricongiungere i cocci ma non c’era verso. Così, in virtù di una specie di accordo fatto inizialmente tra di noi e cioè di dire apertamente all’altra persona qualora avessimo trovato qualcun altro con cui frequentarci, lo avvisai di avere un misterioso fidanzato di Bologna.
Niente di più falso ma volevo chiudere quella storia che per me era diventata un’agonia. Siccome a fatti non ce la facevo, siccome ogni volta attendere un suo sms che non arrivava mai era diventato straziante quanto per Penelope l’attesa di Ulisse, un giorno mi feci coraggio e gli dissi di avere conosciuto un ragazzo e che dunque quella nostra pseudo-storia che ormai non esisteva più, si poteva ritenere conclusa.
Non ricordo bene cosa mi rispose ma da lì non ebbi più sue notizie per un paio di mesi.
Questo fino alla notte di Natale.
Ero in macchina con un’amica, ero stata alla celebrazione della mezzanotte. Mi arrivò un sms da parte sua con un pezzo di una canzone dei Tiromancino.
Il mio pensiero vola verso te per raggiungere le immagini, scolpite ormai nella coscienza, come indelebili emozioni che non posso più scordare.
Gli risposi...
E il mio pensiero ti verrà a cercare, tutte le volte che ti sentirò distante, tutte le volte che ti vorrei parlare, per dirti ancora che sei solo tu la cosa che per me è importante.
Questo sms fu per me come una sorta di maledizione. Una formula magica che mi segnò a vita.
Per sette anni, fra decine e decine di situazioni, fra cambi di città, di amori che di sentimentale a conti fatti non avevano nulla, continuai a volare col pensiero su di lui, a sua insaputa, ogni giorno.
Per il primo periodo, per alcuni mesi, rimasi fedele a quel sentimento platonico. Ma non perché pensavo che tra me e lui potesse esserci ancora qualcosa. Solo perché non avevo alcun pensiero al di fuori di lui. Pensare a qualchedun altro non mi veniva davvero spontaneo. E così seguitai a non uscire con altri ragazzi per diversi mesi.
Povero, cercai in ogni modo di farmi notare da lui. Con le buone, supplicandolo, cercando di farlo ingelosire, tutto senza alcun risultato ed anzi, ero talmente piccola ed ignorante nei rapporti sentimentali che ad ogni pressione che gli facevo speravo di ottenere qualcosa e non mi rendevo conto che invece lo stavo solo spingendo lontano. Gli stavo mostrando la parte peggiore di me. Un ruolo che neanche mi apparteneva.
Sicuramente va detto che anche la mia situazione famigliare non era delle migliori e forse in lui vedevo una sorta di punto di riferimento. Forse pensavo che avrebbe potuto capirmi.
Nonostante anche lui fosse solo un ragazzino, con appena due anni più di me, e dunque vent’anni, ricordo che aveva un’intelligenza straordinaria, uno stile incomparabile e una sensibilità che solo una sera mi fu dato di toccare con mano. Una sera in cui l’alcool aveva fatto la sua parte, appena il giusto per lasciarlo libero di raccontarmi alcune cose.

E così, l’ho amato per sette anni. In questi sette anni solo Dio sa cosa ho fatto per lui. Ovviamente sempre - tutto a sommarsi per contribuire ad avere una visione terribilmente psicotica della mia personalità - ai suoi occhi.
Una sera avevo appena accompagnato mia madre da un’amica e le avevo chiesto di poter tenere la macchina per fare un giro da qualche parte, promettendole di tornare a riprenderla in tarda nottata. Era estate e si sarebbe concessa una serata di chiacchiere.
Così presi a vagare per le strade e, senza nemmeno stabilirlo, mi ritrovai davanti a casa sua.
Senza troppo pensarci gli mandai un sms chiedendogli di uscire perché avrei voluto vederlo e parlargli. Dicendogli che ero sotto casa sua.
La sua auto era parcheggiata, la luce accesa in casa, nelle stanze superiori.
Non ricevendo risposta gliene mandai un altro scrivendogli che sarei rimasta lì fino a che non fosse uscito.
E così rimasi lì sotto, qualche metro più avanti di casa sua, per qualche ora. Addirittura - addormentandomi, alla fine, esausta. Fino all’arrivo della telefonata di mia madre per andare a riprenderla.
Io mi rendo conto che, per chi subisce, questo possa sembrare un atto irrispettoso. Io certo non avevo alcun diritto di importunarlo in alcun modo. Era follia, semplice e pura - follia.
Quando guardo questo gesto dal suo punto di vista mi rendo conto che nulla di quello che ho fatto in quegli anni è servito per dare un’immagine positiva di me e di quello che provavo per lui.
Ma quando guardo questa faccenda da fuori, quando ci penso, non posso fare a meno di commuovermi per l’intenso carico emozionale di questo gesto.
Non credo che in amore esista follia dove non c’è possesso.
Ed io in quel caso non ho mai avuto pretese di possesso. Era semplice trasporto. Totale - se vogliamo.
Alcune persone mi dissero, nel corso di questi anni, che la mia fissazione era data dal fatto che non avevo potuto fare l’amore con lui.
Io invece ho sempre risposto che la fissazione negli anni è aumentata. Man mano che crescevo e prendevo coscienza di me, man mano che diventavo la persona che sono, mi rendevo conto che sarebbe stato bello avere il diritto di farmi conoscere da lui. Di nuovo.
In fin dei conti, le persone cambiano.
Non solo per essere rigiudicata da lui ma anche e soprattutto per guardare lui con degli occhi nuovi. Quelli che avevo acquistato nel corso degli anni.
E poi, riguardo al sesso, io posso giurare che mai come con lui è stata l’ultima cosa a cui ho pensato. Non certo perché non fossi attratta da lui, ma proprio perché ero totalmente presa dalla sua personalità e non dalla situazione, sentivo che il rapporto sessuale in se non contava. Che stavo veramente bene con lui e in sua compagnia.
Chiaramente, per l’età e per le cose che senti dire dagli amici, io mi ero mostrata disponibile a proseguire oltre al bacio. E’ stato lui a fermarmi.
Poi, sempre dopo, trascorsi gli anni, ho capito quel gesto.
Rispetto.
Qualcosa che ad ora, quando ci penso, mi fa rabbrividire e mi crea un nodo in gola.
Sette anni sono una data indicativa.
Dopo sette anni mi sono imposta di dire che non l’amavo più e che la mia vita non doveva più basarsi su nulla che lo riguardasse.

Inutile comunque, anche fossi riuscita ad imporre al mio stato conscio di non pensare a lui, saltuariamente - qualche notte, il mio io torna a ricordarmi e a dirmi che non devo dimenticare.

Haiku

di Rocco Bonelli



Piangevo da solo in quella stanza della "locanda del cigno che ride", finchè il vecchio che alloggiava al piano di sopra, un pedante con le unghie listate di nero, bussò alla porta chiedendo quale fosse il problema.
Troppo stanco per cercare riparo dietro la mia solita arguzia insolente, indicai la mascella gonfia ed il vecchio insistette per accompagnarmi da un dentista che sapeva essere alquanto affidabile e serio.
Sarebbe ripassato il pomeriggio seguente dopo pranzo ed insistette che se non avessi avuto soldi a sufficienza, avrebbe regolato lui stesso il conto con il dentista, suo amico di vecchia data e persona comprensiva.
Non potevo negare il conforto che provavo all'idea che il giorno dopo a quella stessa ora non avrei più sofferto, ma non potei fare a meno di coricarmi sul letto e dare dello stupido al vecchio.
Infatti i lamenti che avevano portato il mio vicino a bussare alla mia porta avevano poco a che fare con il mal di denti.
Piangevo per una ragazza che quel giorno avevo visto bighellonare accanto alla fontana davanti alla quale passavo ogni giorno.
Era vestita di tutto punto, le sue scarpe ed il suo umore si sollevavano.
Incredibile come gli spruzzi della fontana premevano sempre di più le linee del sole nei suoi capelli finchè la luce non vi si tratteneva oltre lo spietato tramonto!
Come potrò più sognare alla luce del giorno, pensai, sapendo che lei bazzica le strade di questi luoghi e ne respira l'aria?!
Il buio era già completo quando lei passò davanti alla panchina sulla quale ero seduto ed io avevo estratto di gran fretta un taccuino lercio dalle tasche ed avevo finito di leggere le sue pagine bianche.
Lei aveva proseguito e le ultime sfumature di luce erano scivolate fra i suoi capelli sparsi sulle spalle.
Le mie dita avevano tremato di un desiderio insostenibile.
Di toccarla.
Era questa la fonte di sofferenza che il vecchio aveva udito quella sera dal pavimento sotto di lui.
Come aveva promesso, quel pomeriggio il vecchio busso alla mia porta.
Insieme scendemmo nei cerchi di fresca luce solare sui marciapiedi.
Questo dentista, spiegò il vecchio, ha recentemente sperimentato uno strano gas chiamato ossido di azoto che si dice sia molto efficace nell'eliminare il dolore, per tanto non vi augustiate.
Annuii sbadatamente, per come stavano le cose non vedevo l'ora di affrontare il calvario che implicasse la purificazione da ogni forma di dolore grazie a un'altra sofferenza perfino più intensa.
Venni fatto accomodare su una poltrona non dissimile da quella di un barbiere, o almeno così mi era sembrato visto che dal barbiere non ci andavo più da qualche tempo.
Il dentista che aveva le guance rosee, gli occhi neri e piccini ed una bocca sensuale, con gesti alquanto maldestri, cominciò ad applicare una una mascherina nera a forma di coppa sulla mia bocca e sul mio naso.
Un lungo tubo di gomma collegava la mascherina ad una bombola sistemata dietro la poltrona.
Il dentista ruotò una manopola sulla bocchetta della bombola mi diede un buffetto sulla guancia e mi disse di rilassarmi.
Non ho idea di quello che sto cercando di realizzare, dissi al dentista, e forse neppure lei ce l'ha.
Continuiamo ad ammazzare il tempo mentre ci scappa il tempo.
Il dentista ridacchiò ed uscì dalla porta.
Il vecchio gli aveva detto che io sostenevo di scrivere poesie e ora avrebbe lasciato passare un po di tempo prima di mettersi a cavare i denti, lasciandomi sognare.
E così io sognai sogni nitrosi.
Sognai di topi sigillati in botti di acqua azzurra. Di fulmini a forma di treni che passavano tra i rami di un albero. Degli elementi dell'orgasmo in macchina: Il passaggio maldestro sul sedile del passeggero per raggiungere la portiera vicina, la pressione delle ginocchia contro la fiancata interna della portiera, la strisciata elissoidale nella patina di polvere quando il fianco di lei striscia contro il sedile, le sue caviglie delicate nella cenere soffice del posacenere, il sudore che trasforma la scollatura della sua camicietta in un baldacchino umido, l'estinzione di un intero paesaggio dentro un canale irrigato, la congiunzione fra le sue cosce e gli strumenti di guida, i movimenti delle sue dita sulle punte cromate degli strumenti del cruscotto.
Dopo ciò ebbi una visione, c'erano parole multicolori sulle fronti delle donne e l'odore di gomma bruciata si abbaricava con dita spinose alla parte superiore del mio cranio.
Le parole che leggevo erano una canzone basata su quella forma di poesia in miniatura chiamata Haiku.
L'haiku è una breve composizione di origine giapponese prevalentemente basata sulla forma a 5 - 7 - 5: tre righe, per un totale di 17 sillabe.
Queste regole sono molto elastiche, ciò che conta è cogliere qualche aspetto di ciò che ci circonda, in modo minimalistico.
Nel 2005 io ed altre tre persone facemmo un patto: mandarsi a vicenda un haiku al giorno registrato in segreterie telefoniche.
Delle decine che scrissi mi sovvengono solo questi due:

Colmi di rune
occhi filigranati
si accendono
 
 
Alza la mano
abbraccia tigre
e torna a montagna

Mi svegliai e disposi i sogni di quel viaggio sul pavimento come carte da gioco.
Tastando nelle tasche della giacca drappeggiata sul braciolo della poltrona del dentista alla ricerca delle mie Camel, sentìì il crocefisso che ormai portavo da mesi al collo, indossato la prima volta per proteggermi da colei che si dice fredda, quando l'avevo lasciata in lacrime sulle scale dopo la mia ultima visita.
Facevo tesoro di quel crocefisso, ciò malgrado lo tenevo nascosto.
Volevo che le mie mani e il mio collo fossero nudi, poichè la mia pelle era già abbastanza decorata dalle linee grezze di sangue che l'attraversavano, formando vocali d'argento.



La fine dell'inverno

di Daniela Pasiphae

 

Camminava spedita, sepolta da sciarpa e berrettino di lana, uscivano solo gli occhi. Questi impegnavano chiunque la incrociasse per strada.
Era in ritardo di qualche minuto ma quando arrivò al campanello non ci fece più caso e suonò con decisione. Al citofono nessuno rispose ma qualcuno aprì il portone.

Salivo le scale. Non sapevo bene dove dirigermi. Il palazzo non era nuovissimo ma sembrava ben tenuto e abbastanza pulito. Un piede dopo l’altro salivo quei gradini in marmo non sapendo cosa cercare. Mi guardavo intorno ma niente, nessun indizio.
Poi qualcuno mi prese alle spalle e mi portò in una stanza chiudendo in fretta la porta.
Era lui e mi stava sorridendo. Teneva la testa leggermente inclinata e stava fermo a guardarmi.
Appoggiai la borsa, tolsi berretto e sciarpa e sistemai tutto su una sedia che sembrava lì apposta.
L’appartamento era bellissimo. Arredato minimal e poco personalizzato. Alle pareti dei quadri astratti. Nessun soprammobile, solo sul tavolino bruciava dell’incenso che odorava di sottobosco. Inspirai forte e chiusi gli occhi, mi ricordai delle gite in montagna con i miei.
Così d’impatto l’appartamento sembrava piccolino ma non me ne andai stanza per stanza a controllare. Una porta-finestra molto ampia dava su un terrazzino. I vetri erano appannati, in effetti lì dentro faceva molto caldo.
Poi mi invitò a togliermi il cappotto. Pronunciò l’invito stando in piedi, dietro di me. Io stavo guardando fuori in quel momento, le case e le luci. Udendo la sua voce mi corse un brivido lungo la schiena.
Poi mi voltai e gli diedi il cappotto.
Continuava a sorridere senza dire una parola.

Era bellissima. Se ne stava lì con l’aria spaurita e mi guardava. Sembrava non capire ma io sapevo che aveva coscienza di ogni cosa. Mi inteneriva quel suo fare da dura, come se nulla di quello che avrei potuto farle avesse potuto nuocerle.
Non era così e lei lo sapeva bene. Mi avvicinai, in modo deciso. Le andai molto vicino e mi stupì quel suo rimanere lì inchiodata al pavimento, senza accennare un minimo gesto di disagio. Un passo indietro, un muscolo in tensione. Niente.
Presi le sue esili braccia tra le mie mani all’altezza del bicipite. Era parecchio più bassa di me. La guidai, facendola arretrare, piano, fino a che non si trovò a ridosso del tavolo in cristallo. Lei, senza dire nulla, accennò a sedersi, appena sul bordo, tenendo la testa bassa. Sembrava come se quel mio sorriso la mettesse a disagio. Non capiva che era necessario.
Iimpazzivo a non poterla baciare. Aveva delle labbra splendide. Sensuali e le teneva leggermente socchiuse, come se l’ossigeno necessario per sostenere quel momento fosse maggiore di quello che poteva inspirare dal naso.
Volevo mettere fine a quella sua agonia. A quel suo stato, quel non avere un posto nel mondo.
Andai in camera e la lasciai sul tavolo. Non avevo nulla che facesse al caso mio. Niente nell’armadio.
Quella casa era così poco utile.
Tornai nel soggiorno, stava nella stessa posizione in cui l’avevo lasciata.
Allora prersi dalla sedia la sua sciarpa e le feci un giro attorno al collo. Lei alzò la testa di scatto e mi fissò.

Continuava a sorridermi ma non riuscivo a capire le sue intenzioni. Pensai che forse ero stata una stupida ad accettare quell’invito. Se solo avessi potuto vedere dietro i suoi occhi.
Ma non mi fu dato. Mi girò la sciarpa attorno al collo e poi sulla bocca e poi ancora, continuò, sugli occhi. Lasciò fuori solo il naso.
Io non potevo nulla. In qualunque caso, qualunque fosse stata la sua intenzione, anche avessi reagito, non avrei potuto fare nulla. Ormai ero lì.
Si allontanò di qualche passo ed iniziai a sentire dei rumori, come se stesse cercando qualcosa. Poi, senza fare rumore, si portò a pochi centimentri da me. Sentivo il calore del suo respiro, finalmente. Qualche centimentro di pelle. Il naso, ma nessun profumo.
Poi mi avvicinò le mani al collo e con una scese e mi accarezzò la schiena. Nessun brivido. Non avevo più caldo, ero gelida. Sentivo freddo.
Le sue mani mi percorsero il volto, mi sfiorarono il naso. Poi, delicatamente, abbassarono la sciarpa scoprendo solo la bocca.
Sentivo quell’unica fonte di calore. Il suo volto adesso emanava calore, le sue narici soffiavano aria e la sua bocca era così umida e morbida.