domenica 28 novembre 2010

Eloise se ne andava scalza

di Daniela Pasiphae



Guidavo da almeno cinque ore senza sosta e sotto una pioggia che si ostinava a sopravvivere.
Non mi piaceva quello che avevo visto fino a quel momento.
Insomma, l'asfalto e l'acqua. Secondo me insieme non fanno una grande coppia.
Viaggiare in asettica solitudine non fa bene - si ha modo di pensare. Non v'è nessuna differenza, parlare col tuo Io o parlare con un amico, se sei tu a parlare, dici comunque le stesse cose. Se è il tuo Io a parlare, sarà comunque in disaccordo col tuo cuore, tanto quanto un amico invidioso.
Mi fermai a bordo strada, la macchina mi guardò di sbieco e mi fece l'occhiolino, un piccolo cenno di ringraziamento. "Hai ragione bella mia, scusami. Avevo bisogno di questo viaggetto. E tu avevi bisogno di perdere qualche chilo!". Non mi rispose.
Tastando coi piedi, indugiai appena li sentii sprofondare nel fango. Aveva smesso di piovere forse da neanche mezz'ora. Sforzando un po' la vista riuscii ad arrivare vicino ad un albero, l'idea era quella di fare la pipì ma, sentendomi addosso dei goccioloni di pioggia che, una goccia sull'altra, si univano per sfondarmi il cranio, decisi di pisciare in mezzo all'erba, lontano dai bombardamenti.
Fu una lunga seduta di espulsione che mi fece perfino correre un brivido lungo la schiena.

La donna che stava con me dormiva alcolizzata sui sedili posteriori.
Avevo deciso di chiamarla Eloise perché lei era muta ed io non sapevo leggere il suo nome che, goffamente, aveva abbozzato sul tovagliolo del locale, scrivendolo, come in quei film anni ottanta, con la matita per gli occhi.
Dopo i primi due drink aveva accettato di buon grado quel suo nuovo nome e aveva ripreso a sorridere. Per tutta la serata le avevo raccontato di me e dei miei viaggi e lei si era mostrata molto divertita. Aveva riso anche quando le avevo mostrato il tatuaggio che mi ero fatto in carcere; una scritta che recitava "Sono posseduto da Dio". Rasentava la blasfemia ma lei rise lo stesso. Fu in quel momento che dubitai perfino che lei comprendesse la lingua che stavo parlando e che mi ero tatuato addosso, quella notte, ubriaco, in compagnia di Bill The Big.
Bill The Big, le avevo raccontato, era un omino minuto dal cuore grande. Lui era finito in carcere per aver soffocato nel sonno il suo datore di lavoro. Bill The Big lavorava come transessuale e aveva due tette sode e i capezzoli sempre turgidi. Ma non era il cuore a conferirgli quel suo beneamato appellativo "The Big". Per fortuna non ebbi mai modo di toccare con mano i motivi del suo nomignolo anche se, più volte, mentre mi lasciavo trasportare dalle sue labbra o mentre lo immolavo, la tentazione l'avevo avuta.

Guardavo quella ragazza, beatamente addormentata. Mi domandavo se fosse il caso, dato che non era cosciente, di spogliarla e di provare a vedere la sua reazione. Volevo a tutti i costi avere un rapporto sessuale con lei. Per tutto il viaggio in macchina, a parte la prima ora trascorsa a ridere da solo con l'ennesima birra tra le labbra, mi ero domandato come mai non avessi approfittato di lei prima che si addormentasse, quando ancora rideva, trasportata dall'alcool sul letto dell'euforia.
La risposta che mi ero dato, più volte diversa, alla fine era che - la rispettavo.
Non avevo mai guardato prima d'ora una donna dormire. Le avevo sempre cacciate via subito dopo essermi svuotato od ero scivolato fuori dal caldo giaciglio mentre loro ancora si domandavano se avessero appena fatto sesso con un uomo malato o col Diavolo in persona.
Questo era successo prima di essere sbattuto in gabbia, chiaramente. Da lì, fatto salvo per Bill The Big, non avevo più provato il sesso.
La cosa su cui riflettevo maggiormente, anche dalla cella, era che, per la prima volta in vita mia, con Bill mi capitava di vivere il sesso in modo, possiamo dire, normale. L'evidente conclusione era che, essendo lui un uomo, lo rispettavo e un po', forse, lo temevo anche. Non fisicamente, s'intende. Io ero forse il doppio di lui. Temevo il suo cuore, che era profondo quasi quanto la sua gola.

Guardavo i capelli di colei che, qualche ora prima, aveva ravvivato la mia prima serata di libertà.
Dal carcere avevo immaginato una festa, gli amici, forse anche qualche donna lasciata scivolare via. Scappare, forse, è il termine più corretto.
Ad inizio serata, appena intravista ballare tra i tanti corpi sudati che animavano la pista, l'avevo subito notata e non avevo smesso un istante di guardarla. Aveva tanti boccoli quanti i serpenti di Medusa ed erano tutti rossi, arancio e castano infuocato. Gli occhi blu, quando mi strinse la mano, abbozzando con le labbra il suo nome - "Eh?" chiesi, sgarbatamente "Non sento con questa musica, parla più forte!". Troppo tardi quando capii che non poteva parlare, lei si era già rattristata. Per diversi minuti cercai di leggere quel nome dalle sue labbra, che affannosamente tentavano di mimare le lettere, una per una. Poi vi rinunciai e la chiamai, dentro di me, Eloise, ma senza dirglielo subito, per non turbarla.

La luna non c'era e non poteva quindi illuminare i di lei contorni del volto. Per questo motivo non posso descrivere nessuna scena romantica, al chiaro di luna, anche se mi piacerebbe tanto farlo.

Alzai il sedile davanti del passeggero, aprendomi la via verso di lei. Non si muoveva, appena respirava. Garbatamente occupava quel suo spazio, rannicchiata in posizione fetale. Il vestitino appena sollevato a scoprire una coscia - bianca.
Stavo per alzare, in punta di dita, un lembo della gonnellina, quando lei aprì gli occhi.
- Che stai facendo? - mi disse. La sua voce era roca.
Pensai fosse la macchina a parlare, così mi voltai verso i sedili anteriori.
Quando tornai su di lei, avevo una Beretta puntata in mezzo agli occhi.
Il momento in cui urlò "Muori stronzo!" io sentii di amarla come mai avevo amato un essere umano. Quella forza d'animo, la sua vitalità. Il suo gioco di fingersi muta e tutta la sera a bere e a ridere con me. A fissarmi intensamente con quegli occhi blu. Io l'avevo amata e rispettata fin dall'inizio. E anche lei, a modo suo, mi aveva amato. Perché non esiste odio se non c'è amore ferito.

Mentre mi sgorgava a fiotti il sangue dal cervello, la guardavo allontanarsi a piedi.
Lei era scalza e portava quel suo vestitino come se neanche l'avesse.
Mentre morivo, mi permettevo di amarla e mi preoccupavo di cosa ne sarebbe stato di lei. Di dove sarebbe andata, da sola, nella notte. L'avevo portata lontano dalle abitazioni di molti chilometri. Chissà se lei lo sapeva.
Mi domandavo anche come avrebbe fatto a non farsi male, andando scalza su..

Camminavo in fila.
A quella menata della fila per entrare in Paradiso non ci avevo mai creduto. E neanche a San Pietro con le chiavi e tutto il resto.
Intorno a me c'erano altri esseri umani. Provavo a parlare con loro ma dalla mia bocca non usciva alcun suono. Pensai a Eloise.
Mi chiamò una donna. Era bionda ma non sembrava tinta. Le guardai il seno e a stento si intravedeva, sotto la veste.
Mi disse "Hai la possibilità, prima di entrare nel Regno dei Cieli, di stabilire un contatto terreno con una persona, tramite sogno. Dimmi che tipo di contatto vuoi stabilire e con chi e vedrò se la cosa è possibile."
L'assistente sociale di Dio mi piaceva parecchio ma non mi stimolava nessuna reazione sessuale. Mi toccai con la mano il mio organo genitale per accertarmi di esserne ancora in possesso.
"Signorina, vorrei andare in sogno alla donna che mi ha ammazzato, crede che sia possibile?".
L'assistente sociale di Dio mi guardò, come se l'aspettasse questa richiesta.
"Gentile signore, se lei vuole conoscere i motivi della sua venuta in questo posto, questi sono segnati tutti sulla sua cartella che a breve le consegnerò, sbrigate queste pratiche. Quindi anche i motivi del perché lei è stato ucciso. Vuole dunque andare, comunque, nei sogni di questa donna o vuol cambiare la sua richiesta?"
Senza pensarci le dissi che volevo comunque andare in sogno ad Eloise.
"Si chiama Sarah. Chiuda gli occhi".

Feci come disse e mi ritrovai seduto in mezzo ad una pozzanghera, inzuppato d'acqua. Pensai che Eloise mi volesse così, nel suo sogno, era lei a decidere. Lei non c'era ma, essendo nel suo sogno, potevo parlarle. "Eloise, cara, non ce l'ho con te, fatti vedere un'ultima volta".
Non rispose. In compenso mi piazzò davanti un cane furioso che mi ringhiava con aria irragionevole. "Eloise, me ne vado subito. Volevo dirti che sei stata la sola donna che io abbia mai amato." - il cane mi azzannò la testa ed io tornai al cospetto dell'assistente sociale.
"Non riescono mai questi contatti con l'assassino, appena dopo morti. Sono sempre brevi e travagliati. C'è sempre troppo odio. La cosa che mi stupisce è come mai i bambini, fino ai sei anni solitamente, non chiedano mai di entrare nei sogni di chi li ha uccisi."
Non la stavo ascoltando molto così evitai di cercare una risposta alla sua riflessione.
La donna bionda mi diede in mano una cartella con dentro le mie scartoffie.
"C'è una persona, qui da noi, che vuol parlare con lei. Una volta passato dalla Porta, cerchi il signor Adam Taylor."

Adam Taylor, Adam Taylor.
Ad Adam Taylor avevo rotto l'osso del collo in una lite davanti ad un locale.
Adam Taylor era la ragione per cui avevo scontato la mia pena in carcere.

Non mi chiesi cosa dovesse dirmi.
Aprii la cartella e lessi i miei dati.
La cronologia di tutte le cose fatte e non fatte, dei gesti egoisti, delle violenze, dei gesti d'amore, delle parole dette e di quelle mancate, partiva dall'ultimo avvenimento della mia vita ed andava a ritroso.
Lessi:
Ulteriori pensieri d'amore su Sarah Taylor.
Ucciso con un colpo di pistola in fronte da Sarah Taylor.
Ulteriori pensieri osceni su Sarah Taylor.
Ulteriori lesioni al fegato da alcool.
Pensieri osceni su Sarah Taylor.
Pensieri d'amore su Sarah Taylor.
Pensieri violenti su Aaron Richardson.

Pensai "Ma Aaron Richardson chi cazzo è?"



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